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Aforismi e pensieri di Lorenzo Calvisi

Selezione dei migliori aforismi di Lorenzo Calvisi, aforista italiano nato in Toscana. I seguenti aforismi di Lorenzo Calvisi sono tratti dal libro Dalla fine, pubblicato privatamente nel 2024 in 100 copie numerate:
"Quando scrivo sono solo, veramente solo; eppure scrivere non è altro che un modo per evadere da questa solitudine, vana e disperata fuga da questo romitaggio spirituale".
Il pensatore di Auguste Rodin
Ogni seria filosofia parte dal Male per arrivare al Nulla. Ogni grande filosofia
culmina col silenzio. (Lorenzo Calvisi - Foto: Il pensatore di Auguste Rodin)

Dalla fine
Tipografia Artigiana di Pisa, 2024 - Selezione Aforismario

Se l’uomo avesse cercato l’originalità assoluta in ogni pensiero, in ogni parola, in ogni atto, da tempo si sarebbe ridotto al silenzio e all’inazione.

L’originalità si riduce ad esprimere in forme inaspettate ciò che già innumerevoli hanno concepito. Talvolta, per risultare originali è anzi sufficiente proporre forme già coniate, ma che pochi hanno presenti.

Gli uomini non hanno fatto altro, in tutta la loro storia, che travestire in vario modo un medesimo, esiguo numero di pensieri.

Il vero si nasconde nel peggio.

Contaminazione e mistificazione sono, alla fine dei conti, le uniche forme di creatività possibili. Creativo è colui che si apre ad una contaminazione totale.

Chi ha fegato si consola nella violenza, chi non ce l’ha nella scrittura. Ogni scrittore è uno stragista mancato.

Essere originali significa solo combinare ciò che in precedenza è stato detto o fatto sino al punto da rendere indistinguibili le proprie fonti.

Per molti, l’arte è solo una via d’uscita dalla meschinità, un modo per compensare la pochezza - o la delusione - della propria esistenza.

L’arte non arresta la nostra caduta, non redime la nostra corruzione - la adorna soltanto.

Nulla suscita più filosofia del dolore fisico. Un’emicrania insegna più di Platone.

Fulcro della poesia moderna - dal Romanticismo in poi - è la disgiunzione tra saggezza e poesia. Il poeta non può esser savio, il poeta è l’antitesi del savio: egli è più vicino al demente che al filosofo. Bisogna vivere male per essere poeti.

Nelle questioni fondamentali, quanto più una risposta è ragionevole, tanto più è insignificante.

Delle ferite più acute, delle illuminazioni più lancinanti, rimane forse qualche morta frase, una o due pagine vergate in fretta e pessima grafia. Troppo spesso si arriva a un punto in cui le nostre stesse parole ci restano aliene, e ci avviamo alla loro interpretazione come Kircher a quella dei geroglifici.

La filosofia incomincia dove il buon senso finisce.

Abitiamo l’epoca della volgarità assoluta. Non esiste più mistero, tutto è sotto i riflettori, tutto è pornografico; ogni nobiltà d’animo è stata presa e, tolta dalle cure degli spiriti grandi, insozzata e data in pasto alla massa idiota; di ogni bellezza abbiamo abusato, sino a renderla consunta e nauseante, di ogni grande sentimento abbiamo fatto vilipendio, tentando di istruirne a riguardo le sterili anime del popolo. Le tecnologie del nostro secolo hanno donato favella, vista e udito a gente priva di pensiero, illudendoci che molti semi potessero rendere meno infeconda una terra già riarsa.

La verità sgorga dalla contraddizione come il sangue da una ferita.

I pensieri più alti sorgono sempre di mattina, magari camminando, quelli più torbidi di notte, fermi sul letto. Passeggiare avvolti dal chiarore ci eleva fino all’Empireo della speculazione, rivoltarsi nel letto ci sprofonda nella realtà della carne e delle lacrime. I primi sono i più belli e i più degni, ma i secondi sono i più veri e i più fecondi. Solo nel dolore e nell’insonnia il mondo si rivela.

La scrittura libera del pensiero, sbarazza del sentimento: fisso un’idea sulla carta, ed ecco che subito mi è estranea. Scrivere vuol dire diventarsi sconosciuti.

Hanno gli accademici uno speciale talento nell’avvilire tutto ciò che sfiorano.

Esiste un’incredibile quantità di scrittori noiosi e prevedibili, che fanno un vanto di scrivere come parlano e come pensano, e che mai si accorgono di parlare e pensare come tutti gli altri.

L’educazione istituzionale è tesa tra i poli della mediocrità degli sfaticati e dell’alacre imbecillità di coloro che vi s’agitano come insetti.

Ogni seria filosofia parte dal Male per arrivare al Nulla. Ogni grande filosofia culmina col silenzio.

Questo secolo ci ha insegnato a soffocare il malessere col rumore, a seppellirlo, senza eliminarlo, sotto un assordante brulichìo di stimoli visivi e uditivi, tanto più desiderabili quanto più confusi. Il torpore e lo stordimento perenni sono sempre preferibili alla discesa in se stessi.

È una tradizione immemore quella che associa alle epoche aurorali il vigore delle armi e a quelle crepuscolari la finezza dello spirito. Questo secolo è finalmente riuscito ad inaugurare un’epoca senza vigore e senza spirito.

Senza accorgersene, gli uomini hanno finito per creare un mondo che non è a loro misura, un inferno doloroso e meccanico, che nessuno riesce a cogliere o comprendere fino in fondo; un abisso in cui si può solo perire, forse impazzire, non certo prosperare.

È incredibile quanti confondano ancora il cambiare col progredire, l’alternarsi dei capricci con l’evolversi, il girare a vuoto con l’avanzare.

Nella giungla non si è liberi: si è costretti in una lotta perenne e senza quartiere, senza possibilità di uscirne, solo di perirne. Bisogna attraversare tutto l’arco degli anarchismi prima di accorgersi che l’unica libertà è quella del recinto.

Pessimista è colui che, incapace di superare il proprio malessere, ne fa una categoria dello spirito, o dell’essere.

Prodigo di elogi verso coloro che “si distinguono” e che “non si confondono” nella moltitudine, nei fatti non c’è niente che il Mondo disprezzi più dell’originalità e che stimi più dell’omologazione. In questa civiltà falsamente individualista, ogni cosa tende, invariabilmente, all’annientamento dell’individuo.

Tutta l'esistenza è lotta contro il male della vita.

Dove non v’è autentica religione non può esservi neanche vero ateismo. Ecco perché viviamo immersi in questo mare grigio e indistinto: perché nessuno si fa più domande, perché l’uomo è più bestia che mai.

Non si vive mai la vita: al massimo, si può fingere di viverla.

I nostri malesseri si sono fatti sempre più interiori, vaghi e inafferrabili, e per questo più tremendi. Noi siamo la causa prima delle nostre malattie dell’animo, ed è per questo che sono immedicabili: la nostra stessa esistenza è una malattia. Le più intime conversazioni sono ormai diventate un compulsare manuali di psichiatria.

Oltrepassate le proprie contraddizioni, cos’è che resta di un uomo?

La forza di un individuo sta tutta nell’ignoranza dei propri limiti; la conoscenza di sé non fa altro che depauperarci d’ogni ingenua arroganza, d’ogni illusione veramente necessaria a quella follia che è l’agire nel mondo.

Deambuliamo attraverso i giorni come malati lungo il corridoio d’un ospedale.

La coscienza è sempre un divorzio. Chi è cosciente del mondo ha perduto il Mondo, ma chi è cosciente di sé ha perduto tutta l’esistenza.

Lucidità è sentire in ogni momento il confine della propria pelle.

Per gran parte del tempo, vivere significa accumulare occasioni da rimpiangere e momenti di cui dolersi.

Si incomincia a disprezzare la vita quando ci si accorge di non essere mai stati capaci di viverla.

Le quotidiane necessità materiali, cui bisognerà pur attendere, se si vuol mantenersi vivi, sono sufficienti ad avvelenare ogni goccia di vita rimastaci. La vita par essere, di per sé, invivibile.

Il piacere che si prova nell’aprirsi con qualcuno, nel sentirsi capiti, è niente al confronto col gusto malsano di quando ci si accorge di essere incomprensibili.

Ciascuno vuol fondare la propria disperazione sulle vertiginose alture del sentimento e della filosofia, ciascuno vuol nobilitare le proprie malinconie, riconducendole non già alle quotidiane abiezioni, ma agli abissi del nichilismo, della mancanza di senso, dello scoramento universale, ossia a tutto ciò che, per troppa altezza o profondità, rimane all’uomo invero precluso.

Nell’ultimo dei giorni solo il male verrà pesato, e una vita di gioie non varrà a riscattare un solo istante di dolore.

L’immagine della fine ci penetra fin dentro le ossa, eppure continuiamo a vivere, e a sentire, come se fossimo eterni.

Libro di Calvisi consigliato da Aforismario
Libro di Lorenzo Calvisi
Dalla fine

Tipografia Artigiana di Pisa, 2024

Se le mie pagine contengono degli aforismi propriamente detti, a ben vedere, ciò è poco più che un caso, un involontario lasciar cadere delle pietre finite nel magma dei frammenti. Per Ippocrate, l’aforisma è una prescrizione, una norma, così come pure per lo Schopenhauer degli Aforismi sulla saggezza di vita e il Coleridge degli Aids to Reflection. Per la maggior parte dei contemporanei, aforisma è semplicemente qualcosa di estremamente breve: motto, calembour, citazione, tutto finisce nel calderone aforistico. Le definizioni dei critici letterari invece si sprecano, e si moltiplicano almeno per il numero dei critici. Credo che una ragionevole epitome delle posizioni che corrono possa apparire come segue: l’aforisma è uno scritto estremamente breve concepito per essere tale. L’aforisma non è meno completo di un trattato o di un romanzo, né meno in sé conchiuso della Divina Commedia. Quel che lascio è dunque il disordinato capitolo di un’ancor più disordinata biografia interiore; il ritratto di una parte di me oramai sterile ed esausta, con la quale non si poteva far altro che seppellirla.

Note
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