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Frasi e citazioni di Lev Šestov

Selezione di aforismi, frasi e citazioni di Lev Šestov (pseudonimo di Jeguda Lejb Švarcman, Kiev, 1866 - Parigi, 1938), filosofo e scrittore russo di origini ebraiche, esponente dell'esistenzialismo. In contrasto con il regime bolscevico, che voleva obbligarlo nel 1919 a scrivere una prefazione marxista a una sua opera, emigrò in Francia nel 1921, dove rimase fino alla morte.
La maggior parte delle riflessioni di Lev Šestov riportate in questa pagina sono tratte dalla sua opera principale: Atene e Gerusalemme, pubblicata in edizione francese nel 1938, e postuma in edizione russa nel 1951. (In Italia è stata pubblicata da Bompiani a cura e con traduzione di Alessandro Paris).
Foto di Lev Šestov
Sappiamo poco e quel poco che sappiamo è relativo. La verità ultima si nasconde
sotto tenebre impenetrabili. (Lev Šestov)

Atene e Gerusalemme
1938 - Selezione Aforismario

Io provoco l’irritazione della gente, si dice, perché ripeto sempre la stessa cosa. Questa era anche la ragione dell’irritazione degli ateniesi nei confronti di Socrate.

L'opposizione fondamentale tra la filosofia biblica e la filosofia speculativa risulta in maniera particolarmente evidente quando opponiamo le parole di Socrate - «Il bene più grande per l'uomo è fare ragionamenti ogni giorno sulla virtù» alle parole di San Paolo - «Tutto quello che non viene dalla fede è peccato».

Gli antichi avevano già compreso la «verità eterna» per cui l'uomo è solo un anello della catena senza principio né termine dei fenomeni.

Molti filosofi, specie tra i moderni, sono altrettanto ipnotizzati dai fatti quanto gli scienziati. Se li si ascolta, il fatto è già di per sé la verità. Ma che cos'è un fatto? Come distinguere un fatto da una finzione, da un prodotto dell'immaginazione?

La maggioranza dei filosofi s'inchina davanti al fatto, davanti all'«esperienza». Eppure alcuni filosofi, e non i meno importanti, hanno capito chiaramente che i fatti sono nel migliore dei casi soltanto una materia grezza, che non fornisce di per sé né sapere né verità, e che bisogna dunque elaborare e anzi trasformare.

Se Descartes ha ragione, se le verità eterne non sono autonome ma dipendono dalla volontà o più esattamente dal beneplacito del Creatore, come è possibile allora la filosofia o più in generale un qualunque concetto di verità?

La ragione non sopporta l'idea di quello che Kant chiama Deus ex machina o «Essere supremo»: per la ragione quest'idea significa la fine della filosofia.

Prima e dopo Kant le verità eterne continuano a brillare come stelle fisse sopra le nostre teste e con la loro guida i mortali lanciati nell'infinito del tempo e dello spazio sempre continuano a orientarsi.

La prima grande legge del pensiero, che sopprime il divieto biblico dei frutti dell'albero della scienza, è non ridere non lugere neque detestari sed intelligere («non ridere né piangere né odiare, ma comprendere»).

Contemplando la necessità di tutto ciò che accade nell'universo, il nostro spirito prova la gioia suprema.

La pretesa dell'umanità di occupare un posto speciale, privilegiato, nella natura non si basa su niente
ed è assolutamente ingiustificata, a meno che non si faccia ricorso ad un «Essere supremo» che però non esiste e che non è mai esistito.

La filosofia che non osa elevarsi al di sopra del sapere autonomo e dell'etica autonoma, la filosofia che si inchina docilmente davanti ai «dati» materiali e ideali scoperti dalla ragione e che permette a questi di depredare e saccheggiare l'«unico necessario», non conduce l'uomo verso la verità ma lo allontana per sempre da essa.

Viviamo circondati da un'infinita moltitudine di misteri. Ma, per quanto i misteri che circondano l'essere siano enigmatici, quel che vi è in esso di più enigmatico e inquietante è che il mistero in generale esiste, e che noi siamo in qualche misura completamente e per sempre esclusi dalle fonti e dai principi della vita.

La realtà ci mostra soltanto un mistero eterno, impenetrabile, quasi che qualcuno abbia impedito per
sempre all'uomo, sin da prima della creazione del mondo, di giungere a quella che per lui è la cosa più necessaria e importante.

Quello che noi riteniamo verità, la verità che ci procuriamo con il nostro pensiero, si dimostra in qualche modo incommensurabile non soltanto con il mondo esterno nel quale siamo stati immersi fin dalla nascita, ma anche con i nostri turbamenti interiori.

Non si convince qualcuno che sta sbagliando se non per causargli un dispiacere.

Socrate fu avvelenato non perché avesse scoperto nuove verità e nuovi dèi, ma perché infastidiva e inquietava la gente con le sue nuove verità e i suoi nuovi dèi. Se fosse rimasto tranquillamente a casa sua, se avesse scritto libri o insegnato nell'Accademia, lo si sarebbe lasciato in pace, come si è lasciato in pace Platone!

Gli uomini hanno paura non tanto delle verità, nuove o vecchie che siano, quanto piuttosto dei predicatori di verità. Perché la verità non insegue né inquieta nessuno, mentre i predicatori sono persone molto irritanti, sempre inquiete e agitate, e non lasciano in pace nessuno.

L'onestà intellettuale consiste nel sottomettersi alla ragione, non per paura, esteriormente, ma nel profondo del cuore. Questa sottomissione è una virtù, se il potere della ragione è legittimo. E se la ragione si fosse impadronita di questo potere illegittimamente? La nostra sottomissione ai suoi decreti non sarebbe in questo caso una miserabile schiavitù? Nessuno vuole parlare di quest'ipotesi, e neppure pensarvi di lontano.

Il silenzio non è un segno d'acquiescenza. Spesso, infatti, ci capita di tacere perché ci accorgiamo dell'inutilità dei discorsi; molti, del resto, non amano le discussioni.

Unde malum? Da dove viene il male? Molte teodicee, con poche variazioni tra loro, danno a questa domanda risposte che non soddisfano se non i loro autori (ma li soddisferanno veramente?) nonché gli amanti delle letture amene. Quanto agli altri, le teodicee causano loro fastidio, e questa irritazione è direttamente proporzionale all'insistenza con la quale il problema del male assilla ogni individuo. E quando questo problema assume per noi l'importanza che ebbe, ad esempio, per Giobbe, qualunque teodicea appare sacrilega.

Si può chiedere: da dove viene il male? (e talvolta, come nel caso di Giobbe, questa domanda è inevitabile), ma non si può rispondere a questa domanda. E solo quando i filosofi comprenderanno che non si può rispondere a questa domanda, e neanche ad altre domande, sapranno che ci sono domande il cui significato risiede precisamente nel fatto che rifiutano risposta, perché le risposte uccidono le domande.

Sappiamo poco e quel poco che sappiamo è relativo. La verità ultima si nasconde sotto tenebre impenetrabili.

La cosa però più incomprensibile di tutte è che i filosofi glorifichino e benedicano la costrizione che la conoscenza esercita, ed esigano che tutti facciano lo stesso (la teoria della conoscenza altro non è, in effetti, che la conoscenza elevata al rango d'ideale, identificata con la verità).

Il peccato mortale dei filosofi non è la ricerca dell'assoluto: il loro torto maggiore è che, quando constatano di non aver trovato l'assoluto, sono pronti a riconoscere come assoluto uno qualunque tra i prodotti dell'attività umana: la scienza, lo Stato, la morale, la religione ecc.

Gli uomini, dice Spinoza, immaginano di non costituire uno degli elementi o degli anelli di questo insieme che si chiama natura, ma pretendono di formare nel seno di essa una specie di Stato nello Stato. Non sarebbe vero piuttosto il contrario? Non sarebbe più esatto affermare che gli uomini abbiano la sensazione di essere solo gli infimi ingranaggi di un'enorme macchina, e che essi abbiano completamente dimenticato che il mondo è stato creato per loro?

«Ciò che è più importante» è al di là dei limiti del comprensibile e dello spiegabile, cioè al di là dei limiti di ciò che può essere comunicato con la parola.

Colui che vuole venerare deve imparare prima di tutto a non vedere: è una grande arte.

Chi si sforza di condurre tutti gli uomini alla propria unica verità, non pensa affatto ai propri simili. La realtà è che egli stesso non osa e non può accettare la propria verità, finché non ne avrà ottenuto il riconoscimento, reale o fittizio, da parte di tutti. E infatti, a lui importa meno di possedere la verità che di ottenerne il consenso universale.

E corretto affermare che il nostro pensiero debba tutto ad Aristotele. Egli, infatti, sapeva come fare per uccidere il mistero. Eppure, il mistero non è morto e non morirà mai: è stato prematuramente ritenuto morto. E accanto al pensiero «naturale», che si soddisfa delle «spiegazioni» semplificate di Aristotele, nell'animo umano rimarrà sempre quella inquietudine che cerca e trova le proprie «verità».

Tutta la storia del pensiero umano, filosofico e teologico, è la storia di una lotta accanita, mortale. C'è da credere che l'idea che noi ci facciamo della verità come di qualcosa che non ammette contraddizione discenda in fondo dalla passione degli uomini per la lotta.

I filosofi aspirano a «spiegare» il mondo, in modo che tutto diventi chiaro e trasparente, e che la vita non nasconda più nulla (o il meno possibile) di problematico e di misterioso. Non si dovrebbe al contrario applicarsi a mostrare che anche ciò che sembra agli uomini chiaro e comprensibile è stranamente misterioso ed enigmatico? Non si dovrebbe sforzarsi di liberare se stessi e gli altri dal potere dei concetti, la chiarezza dei quali uccide il mistero? Le fonti, le radici dell'essere risiedono, infatti, in ciò che è nascosto, e non in ciò che è all'aperto.

Scritti vari
Selezione Aforismario

Benché i tentativi di dare alle domande pungenti della vita delle risposte definitive e complete siano rimasti finora infruttuosi, gli esseri umani non cesseranno mai di porre simili domande. Forse non è dato all’uomo di trovare quello che cerca. Ma almeno, nel suo cammino di verità, si sbarazzasse dei numerosi pregiudizi da cui è sopraffatto così che si possano aprire davanti a lui dei nuovi orizzonti, se non proprio eterni, quantomeno ampi.

Ci sporgiamo sull'abisso sapendo che non vedremo nulla, e non abbiamo bisogno di vedere perché non dalla visione deriva la conoscenza. La fonte della forza è ciò che è considerato fonte di debolezza: la vertigine. Siamo attirati dall'abisso, dall'irrisolto, dal mistero, non dal desiderio di indovinare, di evitare l'infelicità, di comprendere il mistero, in una parola di organizzare la vita. Dobbiamo disabituarci dalla comprensione, amare l'orrore, il disorganizzato. Per questo l'abisso ci attira e ci respinge insieme. 

Ci sono istanti in cui, a un tratto, la nostra condizione ci si rivela in tutta la sua stridente incongruenza, in tutta la sua barbara oltranza, costringendoci a guardare in noi stessi. E allora la terra ci scivola via da sotto i piedi ma non per molto. Perché il terrore per questo senso di sradicamento rimette subito in sella l’essere umano. Scordiamoci di tutto, l’importante è tornare alla terra natia.

È solo quando siamo soli con noi stessi che le nostre ultime verità brillano improvvisamente davanti ai nostri occhi.

Ogni visione del mondo filosofica tende in un modo o nell’altro a dirigere la nostra vita, partendo da questa o quella soluzione del problema generale dell’esistenza umana. Ma non abbiamo né forze, né dati sufficienti a risolvere il problema, sicché tutte le nostre deduzioni morali saranno più o meno arbitrarie e testimonieranno solo i nostri pregiudizi.

La gente comune, che vive inconsapevole ossia non fa mai un bilancio delle sue spese e dei suoi ricavi spirituali, considera sempre i filosofi alla stregua di contabili volontari. 

Si sa che la paura della morte è sempre stata l’ispiratrice dei filosofi. Forse il demone poetico che fece di Socrate un saggio era solo una personificazione della paura. 

Chissà, forse la “viltà”, la misera, meschina viltà tanto vituperata, la viltà del sottosuolo, non è affatto un vizio così grande. Potrebbe essere perfino una virtù! Pensate a Dostoevskij e ai suoi eroi, pensate ad Amleto. Se l’uomo del sottosuolo non avesse avuto paura di nulla, se Amleto fosse stato un gladiatore di natura, non avremmo ancora avuto né poesia tragica né filosofia. 

Finché il mondo durerà, vi saranno sempre uomini che, con coscienza tranquilla o turbata, costruiranno per il prossimo sublimi menzogne. E questi uomini sono sempre stati e sempre saranno i padroni dell’umanità.

"Il pesce ricerca le grandi profondità, l'uomo cerca la felicità". Ma capita anche all'uomo di volersi tuffare nelle profondità pur riconoscendo che non vi troverà la felicità, che lì si sta male, a volte anche malissimo. È difficile spiegare perché questo accada. Questo bisogno si chiama disturbo mentale, malattia psichica. In ogni caso, non appena l'uomo sostituisce alla "felicità" la "profondità", i suoi simili cessano di comprenderlo e si allontanano da lui.

L'uomo è un itinerante rispetto alla trascendenza; più le circostanze lo soggiogano, più sente il dovere di essere libero. 

La verità è ciò che passa davanti alla storia e che la storia non nota.

La verità s’introduce nella vita senza presentare documenti giustificativi.

Nessuno può sapere se la vita non sia la morte e se la morte non sia la vita. Dai tempi più remoti gli uomini più saggi vivono in questa enigmatica e sconvolgente ignoranza. Solo gli uomini ordinari sanno bene che cosa sia la vita e che cosa sia la morte.

Non fu l'uomo, bensì Dio a cogliere il frutto dell'albero proibito e ad assaggiarlo.

Non si può dire che gli uomini non siano liberi, ma essi temono sopra ogni cosa la libertà. Per questo cercano la ‘conoscenza’, per questo hanno bisogno di un’autorità incontestabile, ‘infallibile’, ai cui piedi tutti insieme possano prosternarsi.

Non esiste altra fonte di conoscenza. Non c'è nessun libro sacro, nessun essere superiore da interrogare e dal quale si possa ricevere risposta. C'è solo una fonte: la vita e la nostra ragione. Ciò significa che gli enigmi rimarranno per sempre enigmi, perché non avremo mai fede nell'infallibilità della nostra ragione e nella totalità della nostra esperienza. E va aggiunto che non smetteremo mai di cercare di indovinare.

Un poeta spiegato è come un fiore appassito, il suo posto è solo nella pattumiera.

Zarathustra doveva venire dopo i Karamazov. Sono stati questi due profeti a capire che il futuro porterà apocalisse e rinnovamento.

Uno dei privilegi più importanti è proprio il diritto di non dare risposte, di non ribattere, di non doversi giustificare o, in altre parole, la non-soggezione alle istanze comuni.

Note
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