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Citazioni di Leopardi dall'Epistolario e dai "Costumi degl'italiani"

Selezione di frasi di Giacomo Leopardi (Recanati 1798 - Napoli 1837) tratte dal Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani (1824), che analizza lo stato di decadenza della società italiana dell'epoca, e dall'Epistolario, raccolta delle lettere scritte da Leopardi tra il 1810 e il 1837 e spedite a familiari, conoscenti e intellettuali dell'epoca.
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Ritratto di Giacomo Leopardi
Poco manca ch'io non bestemmi il cielo e la natura che par che m'abbiano messo
in questa vita a bella posta perch'io soffrissi. (Giacomo Leopardi)

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani
1824 - Selezione Aforismario

Il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società.

L’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania considerando queste e quella generalmente. Ma contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.

Niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova.

Gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa

Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale.

Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze.

Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana.

In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie il persifflage, cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia. Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca.

Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così in Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.

Il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela.

Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale.

Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia.

Epistolario
1810-1837 (postumo, 1849) - Selezione Aforismario

A Pietro Giordani, Venezia - Recanati, 8 Agosto 1817
La solitudine non è fatta per quelli che si bruciano e si consumano da loro stessi.

A Pietro Giordani, Piacenza - Recanati, 26 Settembre 1817
Non voglio vivere tra la turba; la mediocrità mi fa una paura mortale; ma io voglio alzarmi e farmi grande ed eterno coll'ingegno e collo studio: impresa ardua e forse vanissima per me, ma agli uomini bisogna non disanimarsi né disperare di loro stessi.

A Pietro Giordani, Milano - Recanati, 2 marzo 1818
Io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più;

A Pietro Giordani, Milano - Recanati, 19 Novembre 1819
Sono così stordito del niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prendere la penna per rispondere alla tua del primo. Se in questo momento impazzissi, io credo che la mia pazzia sarebbe di seder sempre cogli occhi attoniti, colla bocca aperta, colle mani tra le ginocchia, senza né ridere né piangere, né muovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi. Non ho più lena di concepire nessun desiderio, neanche della morte, non perch’io la tema in nessun conto, ma non vedo più divario tra la morte e questa mia vita, dove non viene più a consolarmi neppure il dolore. Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, ma mi affanna e lacera come un dolor gravissimo; e sono così spaventato dalla vanità di tutte le cose, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, come sono spente nell'animo mio, che ne vo fuori di me, considerando ch’è un niente anche la mia disperazione.

A Pietro Giordani, Piacenza - Recanati, 24 Aprile 1820
Poco manca ch'io non bestemmi il cielo e la natura che par che m'abbiano messo in questa vita a bella posta perch'io soffrissi.

Ad André Jacopssen,1823
L’arte di non soffrire è di questi tempi la sola che mi sforzo di imparare. Questo accade precisamente perché ho rinunciato alla speranza di vivere.

Che cos’è dunque la felicità, mio caro amico? e se la felicità non esiste, che cos’è dunque la vita? Io non ne so nulla.

A Luigi De Sinner, 1832
Quali siano le mie sventure [...] ho abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso né con frivole speranze d'una pretesa felicità futura e ignota, né con una vile rassegnazione. I miei sentimenti verso il destino sono stati e sono sempre quelli da me espressi nel Bruto minore. Come conseguenza di questo coraggio, essendo stato condotto dalle mie ricerche a una filosofia disperante, non ho esitato di abbracciarla tutta intera; mentre dall'altra parte è stato soltanto per effetto della viltà degli uomini (i quali hanno bisogno di essere persuasi del merito dell'esistenza), che si è voluto considerare le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze personali, e che ci si ostini ad attribuire alle mie circostanze materiali quel che si deve soltanto al mio intelletto. Prima di morire, voglio protestare contro questa invenzione della debolezza e della volgarità e pregare i miei lettori di dedicarsi a demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che ad accusare le mie malattie.

A Monaldo Leopardi, Recanati - Napoli, Maggio 1837
I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l'età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all'eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.

Note
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