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Frasi e citazioni di Andrea Scanzi

Selezione di frasi e citazioni di Andrea Scanzi (Arezzo, 1974), giornalista, scrittore, saggista, drammaturgo e opinionista italiano.
Tutti per sé e io per me: è il nostro slogan, quello di una
generazione che ha visto l’edonismo eletto
a mito collettivo. (Andrea Scanzi)
Elogio dell'invecchiamento
Viaggio alla scoperta dei dieci migliori vini italiani (e di tutti i trucchi dei veri sommelier)
© Mondadori, 2007

Nulla viene da sé. Anche la scrittura, come il vino, è fatica. Soggetta al tempo, al clima, al caso. Non si scrive quasi mai: più verosimilmente, si è scritti (questa non è mia, è di Carmelo Bene).

L’universo del vino è tanto esplorato quanto sconosciuto.

Ogni volta che faccio una degustazione e mi esce dalla bocca una parola come «opulento», un po’ mi viene da ridere e un po’ benedico il fatto che Nanni Moretti non sia nei paraggi.

Come tutte le cose buone, anche il vino ha le sue controindicazioni. Quella che fa più paura si chiama alcol. Quella che va quasi di pari passo si chiama calorie. Il vino, se troppo assimilato, fa male e fa ingrassare.

Dice il proverbio: un bicchiere al giorno toglie il medico di torno. Appunto: un bicchiere, non quindici. Il vino ha effetti unicamente positivi solo se non se ne abusa.

I nostri nonni hanno sempre bevuto (almeno) un bicchiere di vino a pasto, ci hanno sempre detto che faceva bene e sono arrivati a un’età considerevole sfoggiando una forma fisica che noi buonanotte. 

I cocktail sono stati creati con l’unico intento di compiacere l’ego deviato dei baristi e demolire l’apparato digerente dei clienti. Se proprio siete in vena di masochismi, datevi al trampling. Si gode di più.

Scegliete vini di qualità, magari non costosissimi ma comunque di provenienza e doti relativamente certe. Di un vino si paga anche la digeribilità.

Non è tempo per noi
Quarantenni: una generazione in panchina © Rizzoli, 2013 - Selezione Aforismario

Siamo cresciuti coi Promessi sposi che non erano di Alessandro Manzoni, ma di Solenghi, Marchesini e Lopez, e secondo me non ci abbiamo perso poi più di tanto.

La mia generazione è sopravvissuta al Gioca Jouer, al corvo Rockfeller, al robot Zed, ad Alfiero Toppetti, all’«Has Fidanken» di Gianfranco D’Angelo, a Steven Sanders, e alle seghe mentali di Donna Marie Martin. Gli anticorpi non ci hanno mai fatto difetto.

La mia generazione ha avuto pochi traumi, anche se a guardarci e ascoltarci non sembrerebbe...

Siamo precari. Precari di lavoro e di ideologie, di appartenenze e di certezze, di utopie e di fobie. Precari, precari sempre.

La generazione dei nostri padri ha vinto i mondiali dell’82. Quella successiva a noi ha vinto i mondiali del 2006. Per il primo trionfo eravamo troppo piccoli, per il secondo troppo scazzati.

Se la generazione prima della nostra si identificava con Vasco, la mia lo ha fatto con Ligabue. Dall’arrabbiatura di pancia, già postideologica ma comunque nevrastenicamente sincera, al malpancismo superficiale e comodamente malmostoso.

Il cantautore diventa compagno di viaggio e spesso coscienza critica, o – quel che è peggio – profeta e portatore del verbo. Un profeta tollerato finché dice quel che vuoi sentirti dire e processato – a volte letteralmente – quando osa scartare rispetto alla strada maestra.

Serviva qualcuno che rivalutasse il brutto, cioè buona parte del nostro passato. Dei nostri modelli di riferimento. Quel qualcuno è Quentin Tarantino. Nella sua foia rivalutazionista, incentrata più che altro sui Settanta, ha salvato quasi tutto. Le Barbara Bouchet, il poliziottesco, lo spaghettaccio western. A volte ha fatto bene e a volte no.

Quentin è l’assolutore. Il nostro assolutore. Colui che tramuta in bello e addirittura artistico anche il brutto, e dunque pure noi. Noi e il nostro passato. Anzitutto il nostro passato.

Sex and the city fa scoprire ai maschi una cosa incredibile: anche le donne parlano di sesso. Non solo: ne parlano peggio degli uomini.

Molti uomini odiano Sex and the city. Per forza: se lo guardano, scoprono che le loro mogli e compagne a) ridono di lui, b) non godono con lui, c) sono più disinibite di lui. Questo, per il maschio alfa, ma pure beta o zeta, è intollerabile.

Una delle critiche più inattaccabili rivolte alla mia generazione riguarda la sua qualità. La sua rilevanza. Perché, innegabilmente, l’arte era molto superiore nei Sessanta e Settanta? Cosa c’era, ieri, che poi non abbiamo più scorto? Passare da Bob Dylan a Povia, oggettivamente, è indifendibile.

Jovanotti, il nuovo re degli ignoranti, che si finge però intellettuale, contravvenendo alla diminutio a cui Celentano – al di là degli sfoghi ciclici politicheggianti – non è mai venuto meno.

Tutti a fare Battisti senza essere Battisti, con picchi creativi da meringa petrarchesca.

L’assenza di traumi evidenti ha portato con sé una sorta di perdita del centro di gravità permanente, a cui abbiamo dovuto sostituire una sempiterna e confusa ricerca della rilevanza perduta.

C’è qualcosa che inchioda i nati nei Settanta all’equilibrismo. Al tutto e al niente. Una sorta di epica perenne del pareggio, che ci condanna a stare in panchina.

Non vogliamo quasi mai responsabilità, perché quasi mai ce le siamo prese. E se lo facciamo, per esempio nella sfera pubblica, giochiamo ai peterpan de noantri nell’alcova.

Se ci sposiamo, rimpiangiamo lo stato brado, che spesso riprendiamo di nascosto prima che qualcuna ci scopra (e ci scopre. Lei. Sempre). Se non ci sposiamo, e magari i figli ci fanno paura, invidiamo le coppie «normali» degli amici. Comunque vada, sarà schizofrenia.

La Rete ha aiutato la comunicazione, ma peggiorato la convivenza. Se i nostri genitori volevano avere più possibilità, e non ce l’avevano, noi ne abbiamo troppe, e non sappiamo gestirle.

I nostri genitori si amavano senza avere il cellulare. Noi, senza cellulare, non andiamo neanche in bagno. E allora è tutto un chiamarsi, messaggiarsi, whatsapparsi.

Se l’epica si misurasse dai minuti spesi al telefono, la mia generazione avrebbe scritto l’Odissea. In prima persona, e tutti attori protagonisti.

I nostri genitori, di norma, ci hanno protetto. A costo di castrare le proprie aspirazioni sentimentali. Volevano aiutarci, e probabilmente lo hanno fatto, anche se forse siamo rimasti più bamboccioni di quanto avremmo voluto e dovuto, perché tanto male che andava c’erano loro.

Non si sa bene come sia successo, ci saremo forse distratti persino più del solito, ma un bel giorno ci siam trovati Matteo Renzi come rivoluzionario di riferimento. Ora: quando una generazione intera prende un boyscout come Renzi come Subcomandante Marcos di riferimento, qualcosa non torna. 

Renzi è una sorta di sintesi, talora involontariamente caricaturale, del quarantenne italicus: un po’ yuppie e un po’ impegnato, un po’ di sinistra e un po’ di destra, un po’ operaista (ma poco) e un po’ marchionnista, un po’ bamboccione e un po’ emancipato, un po’ bruttino e un po’ no – però convinto di piacere: proprio come Jerry Calà nei suoi film.

Lo capisco che quel discorso di Steve Jobs, pronunciato nel 2005 all’Università di Stanford, ci affascini. Un testamento agguerrito e sognante, tipo professor Keating premoriente, che invita i più giovani a essere affamati e folli. Be hungry, be foolish. Il problema è che i nati sotto i Settanta non sono affamati, se non di Buondì Motta e Ciocorì.

Intellettualmente, salvo eccezioni, siamo sempre stati assai pigri. Alla ricerca culturale abbiamo preferito il divano esistenziale.

Gli affamati erano quelli prima di noi: di rivalsa e di miseria, di futuro e di cambiamento. E quelli dopo di noi: di rabbia e di rap, di web e di appartenenza vaga. Noi siamo cani sciolti, non per scelta ma perché il branco ci è sempre piaciuto poco. Molto meglio la solitudine dei numeri secondi. O terzi, o quarti, o non classificati.

Abbiamo però quello che nessun’altra generazione ha: la propensione a essere cazzari. Qualcosa che ci disinnesca, perché ci porta al disimpegno e al menefreghismo.

Dentro ogni nato sotto i Settanta c’è un cazzaro di talento. 

I tromboni buonisti sono un morbo trasversale che ha anestetizzato questo Paese e questa generazione. I cattivi maestri hanno condotto alla pazzia molti nati nei Cinquanta, i buonissimi maestrini hanno indotto al coma ideologico troppi nati nei Settanta.

È giunto il tempo di scrollarci di dosso questa patina buonista e coltivare un approccio debitamente nervoso e all’occorrenza incazzato. Senza smarrire l’approccio cazzaro che ci caratterizza, e che ci consente un’autoironia sistematica e salvifica.

Noi non faremo rivoluzioni, perché siamo italiani e perché siamo nati disinnescati. Più che cambiare il mondo, possiamo giusto mutare la grafica della nuova edizione di Pro Evolution Soccer.

Sembra davvero che, ogni maledetta domenica, il nostro obiettivo sia non prenderle. Neanche ci siamo accorti che, nel calcio come nella vita, la vittoria vale tre punti e non più due, e che il pareggio è pressoché identico alla sconfitta.

Alla guerra non andiamo quasi mai, e se ci andiamo ci preoccupiamo non delle munizioni ma di come e quanto la nostra divisa sia di marca.

Sarebbe il caso, forse, di sparigliare le carte. Anche solo per vedere l’effetto che fa. Di essere cazzari, di essere nervosi, di essere folli. Di essere vivi. Di rischiare il tutto per tutto, o magari anche solo il poco per il poco, ma rischiare.

Tutti per sé e io per me: è il nostro slogan, quello di una generazione che ha visto l’edonismo eletto a mito collettivo.

È il quotidiano il nostro voto, è lì che decidiamo le nostre sorti. Non certo dentro l’urna elettorale, o non soltanto.

Se non è tempo per noi, il complotto ce lo siamo fatti da soli. E vuol dire che ci va bene così. Perché è proprio la retrovia che ci piace: così possiamo lamentarci di quelli in prima fila che non si spostano mai e si tengono le luci della ribalta tutte per loro.

Non saremo rivoluzionari, non saremo incendiari e, in generale, al momento non siamo. Dunque non saremo. Ma potremmo essere.

Sfascistoni
Manuale di resistenza a tutte le destre © Paper First, 2021

Ciò che maggiormente mi preoccupa è questa gran voglia, che avverto ormai pressoché ovunque, di sdoganamento totale del fascismo. Un desiderio depravato e trasversale di far credere che ciò che anche solo fino al giorno prima appariva inaccettabile sia diventato nel frattempo lecito. Addirittura auspicabile.

Una delle cose più paradossali dei fascisti è che rimpiangono un tizio caricaturale brutto come la fame e ridicolo come Gasparri nudo con le Crocs che, oltre ad aver fatto tutti i disastri che ha fatto, morì scappando con l’amante, abbandonò la famiglia e si finse tedesco (e pure ubriaco) dentro una camionetta nazista pur di non farsi beccare dai partigiani. Un gigantesco senza palle e vigliacco, che ha vissuto da dittatore assassino per più di vent’anni per poi mostrare il suo vero volto: quello di inguaribile e conclamato egoista codardo. Davvero un bel punto di riferimento, sì.

Il problema è che a noi c’è mancata Norimberga. L’Italia non ha mai fatto i conti col fascismo e con la sua memoria storica.

Nulla potrà salvarci se nel frattempo ci saremo spenti. Magari senza neanche accorgercene. Tutto sembra accaderci davanti senza suscitare in noi alcuna reazione. Senza indignazione siamo nulla. E i fascistoni vogliono proprio quello.

La politica è quasi sempre scegliere il meno peggio. Non è il massimo come prospettiva, ma a volte il meno peggio può divenire qualcosa di pienamente bello. Mentre il peggio può solo incancrenirsi e imputridire ulteriormente.

Una delle differenze tra fascisti e democratici è che i secondi coltivano la memoria. E per questo conoscono le depravazioni della storia.

Turarsi il naso sì, accettare di tutto no.

Non appena vedete “quelli buoni” brandire come unico motivo per votarli il terrore del fascismo, rispondetegli che anche un lombrico morto è migliore di un fascista. 

Il fascismo prolifera nell’ignoranza. Informatevi, sempre: è faticoso, frustrante e pure doloroso. Ma è anche salvifico.

Sognare quando si può, votare quando si deve. Che è poi il senso – terribile e per certi aspetti meraviglioso – della politica.

Schierarsi sempre, astenersi mai. Diffidate degli equilibristi, dei cerchiobottisti e degli imparziali. Chi si dichiara imparziale è solo un paraculo. 

Guida galattica per elettori incazzati
© Rizzoli, 2022

Non state a casa: non ve lo perdonereste. Scegliete chi avvertite più vicino o meno distante. Ma scegliete. La politica è quasi sempre sangue e merda e per le utopie occorre rivolgersi altrove.

Note
Vedi anche frasi e citazioni di: Giuseppe Cruciani - Giampiero MughiniVittorio Sgarbi