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Frasi e citazioni di Antonio Scurati

Selezione di frasi e citazioni di Antonio Scurati (Napoli, 1969), scrittore, saggista e giornalista italiano, docente di letterature comparate e di scrittura creativa all’Università IULM di Milano.
Foto di Antonio Scurati
Non ti puoi sottrarre al presente quando il passato e il futuro sono stati cancellati,
quando il presente è l'unica cosa che rimane. (Antonio Scurati)

Gli anni che non stiamo vivendo
Il tempo della cronaca © Bompiani, 2010 - Selezione Aforismario

Dalle nostre parti, la vita contemporanea è poco promettente. Intendiamoci, non si vive male. Anzi. Nessuno ha vissuto meno male di noi. Eppure, in tutta onestà, non si può dire che ci sia benessere. Alla penuria del male conclamato non corrisponde una buona vita, ma una diversa forma d’indigenza. L’equazione, insomma, non torna.

Noi, le donne e gli uomini venuti al mondo nel prospero e pacificato Occidente dopo la fine della Seconda guerra mondiale, apparteniamo al pezzetto di umanità più agiato, nutrito, longevo, sano e protetto che abbia mai calcato la faccia della terra. 

Per molti aspetti sembriamo essere i rampolli di una stirpe insicura, vaga, incerta. Stiamo gracili nell’esistenza storica. 

Quasi non abbiamo più desideri che non si riducano a bisogni (tutti soddisfatti).

Raramente azzardiamo un programma di vita che vada oltre l’orizzonte del weekend. Pochi, pochissimi, si avventurano in pensieri a lunga gittata, in prospezioni di archi temporali che abbraccino l’intera esistenza. Quasi nessuno si azzarda oltre questa misura. 

Impartire e ricevere un’educazione, un’istruzione, una formazione, sono attività che si scolpiscono nel tempo. Non esistono “lauree brevi”. Checché ne dica la lingua burocratica del cronico riformismo universitario.

Come il viaggio verso l’ignoto presuppone la fiducia nella durata spaziale dell’essere, così l’avventura della conoscenza presuppone quella nella sua durata temporale. Noi grandi privilegiati, finiti i viaggi e deprivati della brama di sapere, non salpiamo più l’ancora, né per biblioteche né per i mari del Sud.

Al di là di ogni differenza individuale e culturale, antropologicamente, da che mondo è mondo, fare figli è il gesto principe di ogni pensiero del futuro. E noi occidentali, favoriti dalla sorte, facciamo pochi o nessun figlio. 

La questione della decadenza è l’altra faccia della questione della civiltà, della sua eclissi sempre possibile. L’Occidente, dopotutto, è la terra del tramonto. Tramontare è il suo destino. Non ha mai smesso di farlo. Né di pensarlo.

Noi abbiamo un vago presentimento di fine della civiltà, ma chi ha vissuto il Novecento sapeva per esperienza che la civiltà può morire perché l’aveva già vista morire più d’una volta.

Sta lì, forse, l’origine della nostra indigenza: viviamo nel tempo della cronaca. La cronaca non è più, per noi, uno dei tanti modi di raccontare il tempo presente. È diventata, invece, il criterio generale del nostro sentimento del tempo.

La vita, se vissuta nell’orizzonte angusto della cronaca, si cronicizza in una malattia inguaribile di lungo decorso. La cronaca, se lasciata a se stessa, finisce col ridurre lo spettro dei suoi colori al nero e al rosa. Ci guardiamo attorno, spaesati, e vediamo soltanto un puttanaio assediato da crimini insensati.

Misurare la propria vita sul metro corto della cronaca significa vivere in un mondo poco promettente.

L’agenda dell’opinione pubblica è determinata dall’agenda mediatica; e i media, oramai, si nutrono prevalentemente del crimine, del disastro, dell’incidente violento. In questo modo, alimentano costantemente il senso d’insicurezza generale dell’elettorato che si sente minacciato dalla nuova barbarie. 

Sotto la pressione dei linguaggi mediatici, quando l’orizzonte ampio della storia e delle sue storie si frantuma in cronaca di un oggi assoluto, esso si depriva con ciò della possibilità di entrare in un racconto più grande, foss’anche un racconto del Male. 

La vita, se letta sulle pagine dei giornali o vista in tv, scadendo a teatro di fattacci e fatterelli finisce con l’apparirci come una malattia inguaribile di lungo decorso.

Forse, all’inizio del nuovo millennio, è proprio questo il principale mito d’oggi: la guerra che dura ininterrottamente sui nostri schermi, obbligandoci ad accettarla impassibili e inerti come un fatto naturale, a guardarla come si guarda un bosco di alberi millenari.

Il più perverso effetto del dilagare odierno della volgarità neotelevisiva, epifenomeno del dominio esercitato dalla tv sull’intera sfera culturale, consiste proprio nel rafforzare l’immane equivoco sul moderno disincanto del mondo, in base al quale essere moderni significherebbe dover ingoiare la morchia del presente e non, invece, poter distillare l’olio lucente del futuro.

La lamentela è un inveterato vizio italiano. In essa risuona quell’inerte piagnucolio che ha da tempo rinunciato a ogni responsabilità e a ogni reazione. La lamentela si limita a pietire un piccolo risarcimento per sé. 

Non c’è peggior nemico della felicità che la falsa felicità.

Tu sei un uomo, e l’uomo è l’animale che potrebbe essere felice. È l’animale in predicato di beatitudine. L’uomo è l’animale in odore di felicità.

L’insuccesso, diceva già Balzac, è un “delitto di lesa maestà sociale”, perché il vinto diviene “l’eversore di tutte le virtù borghesi su cui poggia la società”. L’infelice, diremmo noi oggi, è il solo scandalo della società del benessere. 

A causa della resipiscenza/recrudescenza indotta dalla pubblicità, ci dobbiamo rassegnare ad essere ottimisti. Di tutti i tanti ossimori cui soggiace la vita contemporanea, questo non è forse il minore. E forse l’obbligo della felicità ad ogni costo, a basso costo, non è nemmeno il minore dei mali.

In principio l’Italia fu precisamente questo: una patria immaginaria. Un meraviglioso racconto di finzione che per credersi vero, e dunque divenire realtà, ebbe bisogno di un generoso eccesso d’emozione. 

Dal tragico all'osceno
Raccontare la morte nel XXI secolo © Bompiani, 2016

Fino a ieri, il differenziale antropologico fondamentale per l’esperienza della crudeltà umana era quello che separava la vittima dal carnefice, oggi tende invece a essere quello che separa la coppia vittima-carnefice, su di un versante dello schermo, dallo spettatore sul versante opposto. Da un lato quelli che infliggono e subiscono la crudeltà, dall’altro quelli che la guardano in tv. 

Per preparare il mondo a venire, dovremo necessariamente ritrovare il senso profondo della nostra storia.

Siamo reduci dalla trentennale illusione di un’Europa che credé di poter stare al mondo come in un guscio climatizzato autoimmune in cui condurre un’esistenza indoor di piacevolezza e di lusso negli “spazi interni del capitale” escludendo nell’altrove mediatico e turistico il mondo reale, grande e terribile.

M. Il figlio del secolo
© Bompiani, 2018

La democrazia ha della vita una concezione prevalentemente politica. Il fascismo è tutt’altra cosa. La sua concezione è guerriera. Le gerarchie d’ordine militare devono essere “ferreamente costituite”. La disciplina militare comprende quella politica.

La massa è gregge, il secolo della democrazia è finito, la massa non ha domani.

Gli individui, lasciati a loro stessi, si agglutinano in una gelatina d’istinti elementari e di impulsi primordiali, un gel sanguinolento mosso da un dinamismo abulico, frammentario, incoerente. Sono semplice materia, insomma. Bisogna, dunque, abbattere dagli altari democratici “sua santità la massa”.

Ascoltali. “Viva Mussolini! Viva Mussolini!” Gridano il nome del Capo perché nella vita di un uomo un Capo è tutto. 

Nella vita la felicità non esiste. Il fascismo non commetterà lo stesso grossolano errore di prometterla.

È struggente la cecità della vita riguardo a se stessa.

Eravamo piccoli manipoli, siamo oggi legioni. Eravamo allora pochissimi, siamo oggi una moltitudine sterminata. Certo, c’è qualcosa di misterioso in questo rifiorire della nostra passione, qualcosa di religioso in questo esercito di volontari che non chiede nulla ed è pronto a tutto. È la primavera, la resurrezione della razza, è il popolo che diventa nazione, è la nazione che diventa Stato, che cerca nel mondo le linee della sua espansione.

Gli uomini si parlano ma non le ideologie. 

La fuga di Enea
Salvare la città in fiamme © Solferino, 2021 - Selezione Aforismario

Attraverso secoli di lotte sanguinose – spesso «guerre civili» intestine – le democrazie liberali dell’Occidente hanno affermato contro teocrazie e totalitarismi che i loro valori supremi sono racchiusi nel concetto di libertà individuale e di dignità personale, entrambe intangibili di fronte allo Stato e alla Chiesa.

Noi europei d’Occidente abbiamo imparato ad amare e a rispettare la singola vita non in quanto «sacra» – concessa da un Dio – e non in quanto sussunta a una laica entità superiore – Stato, Popolo o Nazione – ma in quanto libera, assoluta, sovrana su se stessa.

Ogni vita è degna di essere raccontata (non solo le vite straordinarie di santi o eroi).

Ogni individuo deve poter scegliere liberamente, non solo come e dove vivere, ma anche quando porre fine alla propria esistenza in base alla sua personale, irriducibile, inalienabile concezione della dignità di essa.

Chiunque si opponga alla facoltà dell’individuo di decidere della propria vita, lo fa in nome di un principio cui quella vita viene subordinata, togliendole così pienezza, libertà, sovranità e dignità.

Nella società aperta, nelle democrazie liberali chiunque deve poter parlare del proprio Dio ma nessuno deve poter legiferare in nome di Dio.

Siamo noi, noi che viviamo sotto un cielo disertato da Dio, a glorificare la vita di un amore disperato, assoluto, struggente, proprio perché non crediamo in un’altra vita ultraterrena.

L’animale-uomo è fragile, precario, vulnerabile, vale a dire che è per costituzione «malato». Si nasce, a caso, si fiorisce, brevemente, si sta gracili nell’esistenza, si esulta per un istante, ci si ammala, qualche volta si guarisce, poi, inesorabilmente, si muore.

Qualunque storia – scriveva Hemingway – se la racconti sufficientemente a lungo, finisce con la morte. È questa essenza della condizione umana a rendere i vizi, gli eccessi, i piaceri peccaminosi una delle più alte manifestazioni di vitalità della nostra specie. Sono brevi momenti d’intensificazione vitale, piccoli carnevali quotidiani, istanti di oltranza nei quali l’individuo insorge dentro e contro il proprio destino di mortale.

Articoli
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Le nuove generazioni non sono più educate dalla scuola o dalla famiglia; esistono altre "agenzie educative" – tv, pubblicità – profondamente e perversamente seduttive. 

Dobbiamo riprenderci l'avvenire. E l'unico modo per farlo [...] è "dire di no ai giorni del presente".

Non ti puoi sottrarre al presente quando il passato e il futuro sono stati cancellati, quando il presente è l'unica cosa che rimane.

Non c'è epoca della nostra storia più dimenticata del Risorgimento. In rapporto alla sua importanza, l'oblio è tanto insistente da far sospettare una rimozione.

Se il Risorgimento è dimenticato lo è perché la sua idea guida – la libertà attiva, intesa come libertà di fare e rifare politicamente il mondo in modo tale che si adatti meglio all'esistenza umana – è oggi un'idea morta.

Viviamo nel tempo del revisionismo, caratterizzato da un pervicace spirito di risentimento rispetto al passato, con intenti demistificatori se non denigratori: la tendenza a disseppellire i morti per ucciderli una seconda volta, a svilire la dignità etica e politica della storia. È una sorta di nichilismo.

Note
Leggi anche le citazioni degli autori italiani: Alessandro Barbero - Giordano Bruno GuerriGiuseppe Montesano 

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