Frasi e citazioni di Domenico De Masi
Selezione di frasi e citazioni di Domenico De Masi (Rotello, 1938 - Roma, 2023), sociologo italiano, professore emerito di Sociologia del lavoro presso l'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" di Roma, fondatore della S3 Studium, scuola di specializzazione in scienze organizzative, che ha sede in Italia e in Brasile, e direttore della rivista Next. Strumenti per l’innovazione.
Riguardo ala propria attività ha affermato Domenico De Masi:
"Ho sempre creduto che il compito del sociologo fosse quello di analizzare a fondo il sistema sociale, coglierne le contraddizioni, gli urti, i contorcimenti e costringerlo a svelarsi nella sua essenzialità, la quale è semplice per natura e perciò può essere comunicata agli altri, insegnata agli allievi, discussa con gli amici, trattata ad arte e perfino migliorata. Solo così il sociologo può condurre una sua rivoluzione semplice e semplificatrice".
Le seguenti riflessioni di Domenico De Masi sono tratte dai libri: L'emozione e la regola (1990), Mappamundi (2015), Una semplice rivoluzione (2016), Lavorare gratis, lavorare tutti (2017), Il lavoro nel XXI secolo (2018) e La felicità negata (2022).
L'emozione e la regola
I gruppi creativi in Europa dal 1850 al 1950 © Laterza, 1990
Non c’è creatività senza una fantasia sbrigliata che ci faccia sognare a occhi aperti, e senza una spinta emotiva che ci incoraggi a osare il non-osato, a coprire gli spazi e superare gli ostacoli che separano i nostri sogni dalla loro realizzazione.
La creatività, a differenza di quanto generalmente si crede, non si identifica con la sola fantasia, ma consiste in una sintesi di fantasia e concretezza.
In fin dei conti, tutta la creatività umana è servita per trasformare l’energia solare in energia sociale.
Mappamundi
Modelli di vita per una società senza orientamento © Rizzoli, 2015 - Selezione Aforismario
Non c’è progresso senza felicità e il mondo non è felice perché oscilla tra disorientamento e paura.
Non è in crisi la realtà ma è in crisi il nostro modo di interpretarla.
Poiché le categorie mentali mutuate dall’epoca industriale non sono più capaci di spiegarci il presente, noi siamo indotti a diffidare del futuro.
Nonostante le sue risorse, le sue bellezze, la varietà delle sue organizzazioni, il mondo in cui viviamo è deludente. L’euforia che ci regala e la depressione con cui ci affligge appaiono parimenti casuali, capricciose, insensate, nebbiose, inspiegabili perché non possediamo un preciso sistema di valori e di attese con cui identificare la nostra posizione attuale e correggere la nostra rotta futura.
Attendiamo il vento favorevole ma non sappiamo dove andare.
I modelli di vita finora sperimentati ci appaiono irrimediabilmente obsoleti ma non siamo ancora riusciti a elaborare un nuovo modello, finalmente capace di attenuare la paura, ridurre il disorientamento, indirizzare il progresso verso esiti felici.
La mancanza di un modello interpretativo, anzi il vuoto oppressivo di un nonmodello, ci rende inermi di fronte alla paura della guerra, delle epidemie, degli immigrati, della sovrappopolazione, dell’inquinamento, della violenza, dei crolli in borsa, della solitudine, della folla, della noia, della morte, dell’aldilà.
Abbiamo ingaggiato guerre mondiali, abbiamo forzato i confini dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, abbiamo realizzato i sogni ancestrali dell’ubiquità, del volo, dell’onnipotenza, abbiamo nutrito speranze di immortalità. Ma siamo in mezzo al guado perché il vecchio tarda a morire e il nuovo tarda a nascere.
Insieme alle ideologie sono scomparsi i leader amati come Gandhi, venerati come Pio XII, autorevoli come Juscelino Kubitschek, temuti come Stalin: personalità carismatiche, capaci di offrire solidi punti di riferimento alle passate generazioni.
Nel mondo siamo già sette miliardi e, quando se ne parla, il pensiero corre subito alle bocche da sfamare, dimenticando che a ogni bocca corrisponde un cervello. Mai prima d’ora il pianeta era stato abitato da tanta materia grigia, e così scolarizzata. Siamo il più grande cervello collettivo mai esistito, e continuerà a crescere nei prossimi decenni.
Oggi i giovani rischiano di smarrire il senso della professionalità dissipandola in lunghe fasi di disoccupazione e, per trovare un lavoro, sono costretti sempre più spesso a cambiare mansione, Paese e vita, riciclando più volte i propri usi e i propri costumi.
Non sempre la ricchezza garantisce felicità, anche se la simula molto bene.
La miseria genera disgregazione e i morsi della fame distruggono la spiritualità, cioè la parte più intima e sublime della nostra natura.
Ai concorrenti del Duemila, il neoliberismo non propone di costruire una società nuova, più giusta e più felice per tutti: propone di battere gli avversari senza pietà e di appropriarsi della loro fetta di mercato; propone di costruire il progresso disinteressandosi delle sue vittime.
La cultura moderna nata dalla fabbrica cede il passo alla cultura postmoderna nata dalla televisione: un patchwork pasticciato di idee, desideri, oggetti, luoghi ed esperienze in cui è difficile distinguere la sostanza dall’apparenza, il contenuto dal contenitore, l’autentico dall’inautentico, il mezzo dal fine.
Nella politica-spettacolo basata sulla seduzione, un nodo mal fatto alla cravatta, un congiuntivo fuori posto o una semplice gaffe possono incrinare i consensi assai più di una proposta sciocca.
La cultura della saggezza e la contemplazione della bellezza possono svelarci, dietro ogni motivo di paura, anche un’occasione di speranza.
Occorre armarsi di utopia positiva, fatta di fantasia e di concretezza, di emozione e di regola. Occorre convincersi che il nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma resta tuttavia il migliore dei mondi esistiti finora.
Una semplice rivoluzione
Lavoro, ozio, creatività: nuove rotte per una società smarrita © Rizzoli, 2016
Chi risolve una realtà complessa rendendola semplice, oltre a essere un genio, è un benefattore dell’umanità. È un rivoluzionario.
Il bisogno di capire e di semplificare è alla base di tutta la conoscenza umana, di tutta la ricerca scientifica e di quella artistica. È alla base della nostra vita.
La società postindustriale è certamente più complessa di quella industriale ma anche gli strumenti che abbiamo per dominarla sono più potenti di quelli disponibili nelle epoche precedenti.
La nostra società postindustriale è doppiamente complessa perché, alla rapidità con cui cambiano le sue strutture tecniche ed economiche fa riscontro la lentezza con cui si trasformano le nostre culture, le nostre opinioni, i nostri atteggiamenti.
Il mio nipotino digitale, nato in questo mondo semplificato e globale, non si accorge della sua fortuna e pensa che sia stato sempre così. Ma io analogico, nato in un villaggio rurale dove non c’erano ancora la luce elettrica e l’acqua corrente, godo ancora del privilegio di stupirmi.
A ben guardare, il progresso umano è null’altro che un lungo itinerario dell’umanità verso l’intenzionale liberazione dalla fatica fisica prima e dallo stress intellettuale poi.
L’ozio può essere elevato ad arte solo nella solitudine dei luoghi giusti, nel giusto isolamento, nel più disincantato distacco verso i giudizi del mondo. Il risultato di questo equilibrio sapiente di silenzio, intelligenza, riflessione e creatività è la beatitudine del corpo e dello spirito. È «il fiore dell’evoluzione umana».
Lavorare gratis, lavorare tutti
Perché il futuro è dei disoccupati © Rizzoli, 2017 - Selezione Aforismario
Il progresso tecnologico ci procurerà sempre più beni e servizi senza impiegare lavoro umano. E la soluzione non è ostacolarne la marcia trionfale, ma trovare criteri radicalmente nuovi per ridistribuire in modo equo la ricchezza.
Tutta la nostra ricchezza, il nostro prestigio, la nostra rispettabilità, le nostre opportunità, le nostre tutele, qualsiasi forma di sopravvivenza, derivano dal nostro lavoro. Ma il lavoro viene negato a un numero crescente di individui che quindi sono gettati nella disperazione.
La produttività consiste nel produrre quanti più beni e servizi con minore apporto di lavoro umano: dunque, crescita della produttività e crescita dell’occupazione non vanno d’accordo. Inoltre, il modo migliore per aumentare la produttività consiste nel sostituire, ovunque possibile, il lavoro umano con quello più veloce e preciso delle macchine.
La mancanza di lavoro non dipende da chi non ce l’ha, e tuttavia gli viene imputata come se fosse colpa sua. Una colpa di cui vergognarsi.
Indurre alla vergogna i disoccupati e i loro familiari è un capolavoro del capitalismo, perché tramuta la rabbia in rassegnazione e garantisce pace al sistema.
Ogni progresso fa le sue vittime. E mentre alcuni si applicano accanitamente al progresso, trascurando le vittime, altri si arroccano nella difesa delle vittime disinteressandosi del progresso.
Il girone estremo, in cui scade il disoccupato quando gli viene meno anche il soccorso della famiglia e del welfare, è quello della mendicità, ossia dell’invisibilità sociale, della sventura assoluta, della morte civile prima della morte fisica.
Nella società postindustriale, avviata dalla Seconda guerra mondiale e consolidata negli anni Ottanta del secolo scorso, l’economia prende il sopravvento sulla politica, la finanza prende il sopravvento sull’economia, le agenzie di rating prendono il sopravvento sulla finanza, sicché la politica deve sottostare ai tempi del Nasdaq.
Puntare sulla crescita, quando la crescita non arriva, significa allargare le disuguaglianze tra ricchi e poveri.
Se la società è così arida da non spezzare equamente il pane del lavoro, tuttavia è colma di lacune da riempire, ignoranze da diradare, fragilità da tonificare. Tutto un vasto e salvifico programma che i disoccupati possono mettere in forma.
La disoccupazione è un mostro dalle molte teste: la più immediata è la mancanza di potere d’acquisto, ma poi seguono a ruota la vergogna, l’emarginazione, l’inerzia, l’apatia, l’autolesionismo.
La disoccupazione tecnologica, gestita con intelligenza, potrebbe essere liberazione benefica dal lavoro stressante e passaggio tranquillo a una vita nuova in cui, delegata alle macchine tutta la fatica bruta, gli uomini imparino ad assegnarsi equamente il lavoro appagante, secondo la vocazione di ciascuno.
Il progresso tecnologico ci procurerà sempre più beni e servizi senza impiegare lavoro umano. Dunque, lungi dall’ostacolarne o bloccarne la marcia trionfale, occorre fare di tutto affinché essa avanzi speditamente e mantenga dritta la rotta verso la liberazione dell’uomo dal lavoro faticoso, stressante e alienante.
Per secoli abbiamo definito il lavoro come «quella cosa che preferiremmo non fare»; è arrivato il momento di definirlo come «quella cosa che preferiremmo fare», che non possiamo non fare: per mantenerci, per nutrire la mente, per divertirci.
Il lavoro nel XXI secolo
© Einaudi, 2018
Ogni giorno le prime pagine dei giornali parlano di lavoro: perché manca, perché stanca, perché stressa, perché muta, perché costa, perché non rende. Chi non ce l’ha lo desidera; chi ce l’ha vorrebbe smetterlo o ridurlo o cambiarlo.
Quando una soluzione è necessaria e tuttavia impossibile, il fatto diventa tragico. E tragica è la condizione di chi oggi odia il suo lavoro o lo perde o non riesce a trovarlo in una società fondata proprio sul lavoro.
Il neoliberismo ha trasformato ogni attività in competizione e ha snaturato la convivialità in un continuo susseguirsi di gare, spesso cruente e letali, per discriminare i vincenti dai perdenti, escludendo o addirittura sopprimendo questi ultimi.
La felicità negata
© Einaudi, 2022 - Selezione Aforismario
Non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele.
Il comunismo ha perso ma il capitalismo non ha vinto perché l’uno aveva imparato a distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre; l’altro ha imparato a produrre la ricchezza ma non la sa distribuire.
Gli esseri umani, alle sfide che la natura ha teso loro da sempre (fame, dolore, malattie, morte), ne hanno aggiunto altre due, di propria iniziativa: il progresso tecnologico e la complessità.
Note
Leggi anche le citazioni dei sociologi italiani: Francesco Alberoni - Giovanni Sartori
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