Frasi e citazioni di Marcello Veneziani

Selezione di frasi e citazioni di Marcello Veneziani (Bisceglie, 1955), giornalista, scrittore e saggista italiano, considerato uno degli intellettuali di maggior spicco dell'attuale destra italiana.
Foto di Marcello Veneziani
L’ignoranza è sempre stata maggioritaria, come la stupidità; ma diventa inquietante quando
va al potere, si fa egemonia, esprime «lo spirito del tempo». (Marcello Veneziani)

Nostalgia degli dei
© Marsilio, 2019

C’è una condizione più disperante dell’avere un crudele destino: è non avere un destino.

L’evento più irreparabile che possa abbattersi su un uomo e su di una comunità è non avere un destino ma solo un’esistenza occasionale, avventata, galleggiare tra la vita e la morte, indifferentemente. 

Dispera Bene
Manuale di consolazione e resistenza al declino © Marsilio, 2020 - Selezione Aforismario

Rendi avveduta e operosa la disperazione, non fingere di eluderla. Ci saranno pure belle speranze; ma ci sono bellissime disperazioni. Non fingere ottimismo, non cedere al pessimismo; rendi fruttuosa la disperazione.

Si dice che la speranza sia l’ultima a morire, come se la disperazione non morisse mai. E invece la speranza è la penultima a morire, poi muore la disperazione.

La nostra epoca più di altre vive la mancanza di ogni orizzonte d’attesa, prigioniera cieca del presente, senza proiettarsi nell’avvenire, nell’eterno o nella nostalgia, messi fuori uso dal calcolo ego-utilitario risolto nel momentaneo.

Disperati si nasce, illusi e poi delusi si vive, beati si può diventare.

La decadenza dei politici oggi rientra nel degrado più generale delle classi dirigenti, e non è più spiccata di quella dei magistrati, degli insegnanti, dei sacerdoti. Vince il demerito, l’ignoranza è quasi una virtù, il raggiro è il suo mestiere. 

Il potere esercitato per spirito di servizio è un raggiro, non ci sono missionari a Palazzo. 

La tendenza radicale all’individualismo in politica, all’egoismo in morale, al narcisismo nella vita, ha tolto alla politica anche la parvenza del noi, riducendola a una collezione di carriere personali e al predominio della sfera privata su quella pubblica. L’Io ha cancellato il Noi che serve solo come paravento per le ambizioni individuali.

L’uomo vale per l’impronta che lascia. Certo, ogni vita umana va salvata e tutelata, ma la vita vale per la traccia che lascia, per ciò che ha edificato, per quel che proietta nel mondo.

Stanchi di vivere ma non ci va di morire. È questo in breve il sentimento che spesso accompagna la vecchiaia estrema, quella assediata dai mali e dalle invalidità.

La cappa
Per una critica del presente © Marsilio, 2022 - Selezione Aforismario

Viviamo nel peggiore dei mondi possibili, abbiamo raggiunto il punto più basso nella storia dell’umanità? No, non il più basso, semmai il punto di non ritorno.

Ogni epoca ha le sue croci e le sue miserie. L’andamento è ciclico, ora siamo in una fase bassa; non poniamo limiti al futuro. Però la maledizione del nostro tempo è che le sue mutazioni sembrano irreversibili.

Scaricare le angosce personali sull’epoca è la variante reazionaria dell’alibi progressista che fa ricadere le colpe e le carenze dell’individuo sulla società, sulle diseguaglianze o sui rapporti di classe.

Non disponiamo di altra arma, di altro potere, che la nostra facoltà di capire: l’intelligenza è la spada che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante. Puerile immaginare rivoluzioni, ribaltamenti radicali; ma stupido è rifiutarsi di capire, non denunciare, farsi complici.

Se non possiamo cambiare il mondo cambiamo almeno il nostro sguardo su di esso, la consapevolezza di vivere e il modo di essere al mondo. 

In giro è un tripudio di «bio» e di «chilometri zero», un’orgia di veganesimo, animalismo, fattorie, sapori dell’orto e cibi genuini. Dietro questa coltre biologica ecosostenibile non c’è la Natura, ma una visione sanitaria, salutista, dietetica; al centro di tutto c’è il soggetto e sopra di lui si muove la macchina tentacolare dell’industria, del consumo, della cosmesi, della pubblicità e della tecnologia.

Il potere globale con la sua macchina produttiva non vuole credenti, patrioti, padri, madri ma solo consumatori; intercambiabili, influenzabili, sradicati e snaturati, nomadi e alienati.

L’accettazione della morte come orizzonte della vita è l’unico modo per vivere in libertà, coraggio e dignità, senza paura. Amor fati.

In giro non c’è aspettativa di futuro, a parte quella personale e privata: non c’è traccia di alternativa, si è insecchito pure il petulante leitmotiv di sognare un mondo migliore. C’è solo da evitare il peggio.

Tra un futuro come minaccia globale per spaventare i cittadini e un ambientalismo ecofurbo per carpire la buona fede degli stessi, è venuta meno l’attesa più autentica dell’avvenire. Che non riguarda solo il clima ma l’umanità, i sistemi politici, economici e sociali, la giustizia, la condizione spirituale, mentale e morale.

L’ignoranza è sempre stata maggioritaria, come la stupidità; ma diventa inquietante quando va al potere, si fa egemonia, esprime «lo spirito del tempo» e a professarla e veicolarla non sono poveri analfabeti del popolino ma coloro che sanzionano chi non si conforma. 

È inquietante non solo il primato assoluto dell’economia, della finanza e della tecnologia sul mondo, ma la sostituzione della cultura, della politica, della religione, della tradizione, delle civiltà con l’universo globale, mercantile e funzionale, addolcito dai propositi umanitari. 

Una glassa etica ricopre il business. Alle merci e alla loro diffusione ci pensa il commercio globale, a darne una giustificazione «ideologica» e persino una buona coscienza morale ci pensano i movimenti di liberazione: antirazzismo, MeToo, Antifa, cancel culture, pubblicità progresso. La loro convergenza produce il modello global.

Si può essere tolleranti con gli ignoranti e sopportare gli arroganti. Ma gli ignoranti arroganti sono insopportabili.

Espiantata la religione, perduto il timor di Dio, sradicato il legame comunitario e territoriale con una patria, una famiglia; perduto ogni orizzonte ulteriore, o inaccessibile ogni apertura spirituale, culturale, metafisica; la vita resta desolata, in un deserto. 

Dove si è nascosto Dio? Non lo trovi in giro, nella vita della gente, non lo trovi nel pensiero, non lo trovi neanche in Chiesa. Il vuoto che lascia è enorme, tutta la vita nostra si svolge intorno a quella voragine.

Senza Dio il mondo è in preda al Caos e al Caso. Sorte curiosa per un pensiero che respingeva l’idea di Dio come irrazionale e oscurantista e poi lascia le sorti del mondo in balia di un Signore cieco, ben più irrazionale, capriccioso e oscuro come il Caos/Caso.

Viviamo in un mondo che ci sembra sempre più globale ed esteso, senza confini; eppure è un mondo sempre più ridotto e sempre più delegato. Si spegne il confronto con il pensiero e con la storia, con la religione e con la tradizione, con le differenze e le identità, tutto si restringe al presente globale vigente.

Scontenti
Perché non ci piace il mondo in cui viviamo © Marsilio, 2022 - Selezione Aforismario

La scontentezza è il male oscuro della vita presente. Ci fu l’epoca dei rivoluzionari, ci fu il tempo dei ribelli, questa è l’età degli scontenti. Che non sono minoranze bellicose come le altre due, semmai maggioranze insoddisfatte. 

C’è qualcosa nell’aria del nostro tempo che fa della scontentezza il tratto comune dell’umanità, almeno in Occidente; è quel che genericamente si definisce «disagio di vivere».

 A essere precisi, lo scontento è il frutto della convergenza tra il malessere spirituale che è dentro di noi e il malessere storico che è fuori di noi, nel rapporto con la nostra epoca. Disagio psichico e disagio sociale.

«Chi si contenta gode», è fatalismo rassegnato, sottomesso al potere e agli eventi. Una resa prima che una scelta. 

«Meglio un Socrate scontento che un maiale contento», diceva John Stuart Mill, sottolineando la superiorità etica del ricercatore insoddisfatto sulla bestia soddisfatta del suo ingozzarsi e vivere senza freni. Oggi siamo alla sintesi al peggio: viviamo come maiali scontenti.

La felicità propende piuttosto per uno stato leggero e provvisorio d’incoscienza. L’infelicità è invece una presa dolorosa di coscienza, uno stato d’animo che si rafforza nei suoi contorni se si immette nel tutto. 

Siamo entrati nella società del malcontento e non s’intravede via d’uscita. Una massa di scontenti affolla la vita pubblica e privata, e non trova sbocchi politici o sociali; così rimane sospeso e galleggiante nella nostra società un malumore minaccioso. 

La fabbrica dei mostri suggerisce che la minaccia del nostro tempo, la priorità assoluta da sconfiggere, non si annidi nel potere ma in chi vi si oppone, ossia in chi non dispone di alcun potere, non si riconosce nel mainstream e non appartiene all’establishment.

Spesso si è scontenti di sé perché qualcuno è scontento di noi; accade pure di essere contenti per aver reso contenti gli altri.

Perché lo scontento non sfocia in rivolta? Perché il livello di malessere non è così radicale, permane un buon tenore di vita, nonostante tutto. Nessuno vuol mettere a repentaglio il benessere che ha. E poi perché non ha messo a fuoco il Nemico contro cui insorgere; i poteri sono diffusi, interni e mondiali, entità sfuggenti e dislocate a più livelli, ineffabili. Ogni sacca di malcontento ha il suo nemico principale, che differisce dall’altro. Contro chi insorgi?

L’uomo comincia a essere scontento quando finisce di aver fame; ossia la scontentezza sorge quando passa dal regno dei bisogni primari a quello della libertà e del pensiero. Lo scontento costeggia e osteggia la noia, ma di lei si nutre. Chi ha pause e vuoti più facilmente coltiva lo scontento. 

La scontentezza, di solito, è segno di intelligenza, perché non si limita alla realtà ma vuole oltrepassarla, non si accontenta di ciò che ha.

Contrariamente a quel che oggi si sostiene, un vero intellettuale non è mai al passo coi tempi; sotto l’alibi della sua attualità lo si riduce alla conformità e dunque al conformismo, rispetto alle mode e ai poteri. Il vero intellettuale è sempre un passo avanti, o perfino indietro, oppure al lato del suo tempo.

Gli intellettuali migliori non sono figli del proprio tempo ma padri di un nuovo tempo, o profeti di un altro tempo.

Molte energie si sprecano non per fondare, costruire, creare, ma per impedire che altri lo facciano; intere carriere universitarie, scientifiche, burocratiche e dirigenziali sono dedicate a questo ignobile esercizio di acidità. Impedire più che realizzare, far fallire più che riuscire. 

Lo scontento è un formidabile lievito dell’ispirazione artistica e letteraria. Senza il tormento della scontentezza difficilmente sarebbero nate molte opere e capolavori.

Nello scontento c’è il principio motore di ogni mutamento. L’energia vitale che muove la scienza e la ricerca, inclusa la ricerca di perfezione dell’artista, è l’insoddisfazione; si ricerca perché non basta quel che già è noto e acquisito.

Il mondo si regge su chi accetta la sorte ma cammina sulle gambe degli scontenti.

Lo scontento civile è parresia, amore di franchezza integrale: e franco vuol dire anche libero. Mai come oggi il civile scontento è da preservare e da coltivare. Poi ciascuno avrà i suoi motivi personali per essere contento e scontento.

Ma, alla fine, la scontentezza è un bene o un male? Difficile stabilirlo in assoluto. Giova se si rivolge alle cose che si possono modificare; nuoce se è rivolta alle cose immodificabili. 

Note
Leggi anche le citazioni dei giornalisti e saggisti italiani: Francesco Borgonovo - Vittorio Feltri - Massimo Fini

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