Frasi e citazioni di Marco Aime

Selezione di frasi e citazioni di Marco Aime (Torino, 1956), antropologo, africanista e saggista italiano, docente di antropologia culturale presso l'Università di Genova. Le seguenti riflessioni di Marco Aime sono tratte dai libri: Eccessi di culture (2004), Antropologia (2016), Invecchiano solo gli altri (2017), Classificare, separare, escludere (2020), Il mondo che avrete (2004).
Foto di Marco Aime
Gli esseri umani tracciano spesso confini su basi arbitrarie, ma quei confini diventano poi
reali e su di essi si costruiscono discriminazioni, si scatenano guerre e si perpetrano massacri.
(Marco Aime)

Eccessi di culture
© Einaudi 2004 - Selezione Aforismario

Ponendo un eccessivo accento sulle diversità culturali, si rischia di costruire barriere, proiettando sugli «altri» differenze che, forse, potrebbero essere superate, attenuate o ignorate. Porre in primo piano la diversità significa accentuare una presunta impermeabilità delle culture di cui gli individui sono portatori.

La storia viene spesso manipolata dalle élite, e l’identità evocata da chi sta al potere si fonda spesso sulla storia, o meglio su una storia, quella storia. 

Sono molti i problemi che sorgono nel momento in cui si intende definire, fissare, rendere tangibile l’identità di un gruppo. È come voler fotografare una classe di bambini che non stanno mai fermi, che si scambiano continuamente di posto. E magari a scattare la foto è un fotografo anch’egli inquieto e continuamente in movimento.

Sebbene nessun teorico della xenofobia sia in grado di spiegarne le cause, si dà per scontato che le persone abbiano una naturale propensione a temere e rifiutare gli stranieri perché diversi: una visione molto utile a nascondere le cause socio-economiche che spesso stanno alla base delle tensioni.

Furto e delinquenza non sono il prodotto di una particolare cultura o religione, ma di particolari individui, e si tratta di un prodotto che accomuna in forma maggiore o minore tutte le società del pianeta.

Ciò che suscita diffidenza nella gente o mette paura – sentimenti spesso esasperati dai media di parte – sono i rapinatori e gli spacciatori, a prescindere dalla loro cultura o religione. È se mai la loro attività malavitosa da condannare, non la loro appartenenza culturale. I furfanti sono condannati ovunque.

Presi da eccessi di buonismo, si rischia di sconfinare in una sorta di ecumenismo che per allontanare i primi accenni di razzismo dei ragazzi porta a dire: «Siamo tutti uguali». In questo modo si legittima l’altro solo perché è uguale a noi, non perché è diverso e come tale va rispettato.

La maggior parte degli studiosi si trova oggi d’accordo nel sostenere che le identità sono un prodotto culturale. Però, al di là dei paradigmi analitici che ci hanno condotto a riconoscere le identità come costruzioni, assistiamo a guerre, lotte, scontri politici in nome di queste identità. Fasulle e inventate finché si vuole, ma attive sul piano pratico.

Antropologia
© Egea, 2016

È difficile dire fino a che punto un ricercatore possa sentirsi simile e coinvolgersi emotivamente nei confronti di un enzima, di un astro, di un logaritmo o di un pangolino. Nell’antropologia si può anche «fare amicizia» con l’«oggetto» della ricerca, si va con lui/lei a bere birra alla sera, ci si raccontano storie personali, si parla di politica e dei rispettivi Paesi. 

Chiunque abbia trascorso un po’ di tempo in un Paese culturalmente diverso dal suo sa quanto siano difficili e delicati i rapporti sociali, soprattutto quando si è lì a «tormentare gente intelligente con domande stupide». 

Invecchiano solo gli altri
(con Luca Borzani) © Einaudi, 2017

La grande paura è quella della non autosufficienza, del decadimento fisico e mentale. Solo quelli sono i vecchi. E, come è noto, invecchiano solo gli altri.

Anche i giovani non sono piú quelli di una volta. Sempre meno numerosi, discriminati, costretti a una lunga postadolescenza in un presente che svuota passato e futuro.

In ognuno di noi convivono età diverse: un’età cronologica, determinata dal numero di anni da cui siamo al mondo, e un’età biologica, determinata dal processo di invecchiamento che il nostro corpo ha subito nel tempo.

Classificare, separare, escludere
Razzismi e identità © Einaudi, 2020 - Selezione Aforismario

Molto spesso il razzismo si presenta come un atteggiamento strisciante, fatto di piccoli gesti, troppo spesso sottovalutati, e di sentimenti diffusi che finiscono talvolta per gettare le basi di un vero e proprio sistema.

Anche nelle pieghe piú recondite e meno evidenti, quelle del linguaggio quotidiano, quelle autoassolutorie dell’«Io non sono razzista, ma…» si cela sempre la paura di una qualche violazione della propria integrità, considerata “pura”.

Ecco da cosa nasce il razzismo: dalla non volontà di conoscere e dall’ansia di classificare, di incasellare, ma nel modo piú semplice e rassicurante, cosí come classifichiamo piante, animali, rocce. Un apartheid preventivo, che ci allontana senza conoscerci e allo stesso tempo ci fa sentire vicini e simili, altrettanto senza conoscerci.

Si può affermare che alla base di ogni espressione razzista esistano due principî base: il primo è che esistono categorie di esseri umani i quali non solo sono differenti, ma lo sono in modo anomalo; il secondo è che questi individui sono inutili se non pericolosi per il proprio gruppo e pertanto inassimilabili.

Non è facile trovare società contemporanee totalmente esenti da forme di razzismo; ciò che le distingue è la misura in cui le sue espressioni pubbliche sono inibite dalla cultura dominante o le azioni violente, di qualunque forma e grado, sono frenate dall’apparato legale.

La rete permette di dare sfogo a rabbie, che prima era difficile esprimere, senza suscitare indignazione o essere puniti penalmente. L’anonimato e la mancanza di empatia che caratterizzano il web hanno liberato pulsioni violente, che in alcuni casi hanno dato una voce moderna a slogan e retoriche antichi.

Ognuno guarda il mondo, convinto di esserne al centro.

Il pregiudizio snobistico e autoreferenziale di ogni gruppo sembra davvero essere una debolezza umana pressoché universale.

Possiamo parlare di razzismo in senso lato, quando le differenze di carattere culturale vengono considerate innate, un prodotto della natura, indelebili e immutabili.

Le narrazioni sulla razza tentano di radicare la cultura nella natura e di equiparare i gruppi sociali con le unità biologiche. Essenzializzando sul piano somatico-biologico il diverso, l’Altro, si arrivava cosí a definire nettamente chi erano i puri (Noi) e chi gli impuri (Loro).

Nel momento in cui differenze che potevano essere considerate culturali, religiose, etniche vengono percepite come innate e immutabili, inizia il razzismo vero e proprio.

Di fatto ogni cultura è un tentativo di conferire un certo ordine alla natura e al mondo che ci sta intorno.

Una delle prime operazioni di “riordino del mondo” è stata la divisione netta tra natura e cultura. Tema che peraltro ha fatto discutere per secoli scienziati e filosofi. Un antichissimo dibattito che ha sempre peccato di eccessiva rigidità, in quanto le due cose non sono separate, ma intimamente connesse.

Non tutte le società umane hanno isolato quella che noi chiamiamo “natura” come un dominio a parte: gli umani e i non umani non sono visti come esseri che occupano mondi diversi e separati e l’ambiente non è percepito come una sfera oggettiva e autonoma.

Il colore è già una condanna per i neri ed è allo stesso tempo un’assoluzione per i bianchi

Il nero non ha bisogno di qualificarsi per essere colpevolizzato. La sua visibilità è già una condanna e benché la maggior parte degli abitanti di questo pianeta abbia la pelle scura, la visione “biancocentrica” è dominante.

Persino il tentativo del politically correct finisce per peggiorare la situazione: diciamo “afroamericano”, ma nessuno si sognerebbe di definire Robert De Niro “euro-americano” o Bruce Lee “asio-americano”. Anche l’espressione “uomo di colore” nasconde solo la percezione che i bianchi hanno di se stessi, cioè di persone che non hanno colore.

La presunta differenza altrui presuppone sempre che l’altro sia comunque inferiore e questo legittima determinate azioni come l’esclusione, la separazione se non la colonizzazione o lo sterminio. 

Il razzismo è piú che una teorizzazione delle differenze umane o un insieme di pensieri ostili nei confronti di un gruppo sul quale non si ha controllo. Tale atteggiamento propone e promuove un ordine razziale, una gerarchia di gruppo permanente che si ritiene rifletta le leggi della natura o il volere di Dio.

L’idea che non sia possibile classificare l’umanità sulla base di differenze biologiche significative è ormai pienamente accettata in ambito scientifico.

Come sosteneva, a ragione, Albert Einstein: «È piú facile spezzare un atomo che un pregiudizio», e il fatto che il dato scientifico non sia sufficiente a sconfiggere i pregiudizi ci dà la misura di quanto il nostro pensiero sia modellato piú dalle percezioni che non da evidenze razionali.

È inutile tentare di smontare idee razziste adducendo prove scientifiche: il razzista crede nella sua narrazione e ha bisogno dell’Altro per sentirsi migliore.

Gli esseri umani tracciano spesso confini su basi arbitrarie, ma quei confini diventano poi reali e su di essi si costruiscono discriminazioni, si scatenano guerre e si perpetrano massacri.

Il mondo che avrete
Virus, Antropocene, Rivoluzione (con Adriano Favole e Francesco Remotti) © UTET, 2020

“Sviluppo”: questa parola magica ha pervaso, a partire dal dopoguerra, le retoriche comunicative mainstream fino a far coincidere il termine con “crescita”. Non c’è giorno in cui gli organi di informazione non ci mettano in guardia dal pericolo della mancata crescita. Svilupparsi, crescere è diventato un imperativo.

Lo sviluppo è il mito fondante della società capitalistica di mercato. Senza di esso tutto il sistema crollerebbe: dobbiamo perciò credere nel vangelo dello sviluppo, nel suo mito.

Sviluppo come pilastro della moderna religione economicistica: un’ideologia si discute, una fede no.

Come ogni credenza, anche lo sviluppo ha i suoi rituali, fatti di incontri tra i grandi della Terra, che si tengono in genere in località di lusso, che continuano a tenere accesa la fiamma della speranza in un futuro migliore al di là di ogni logica conclusione.

Lo sviluppo di alcuni ha portato violenza e sfruttamento su altri più che democrazia e uguaglianza. L’obiettivo di elevare tutti gli essere umani al tenore di vita degli occidentali è materialmente irrealizzabile. 

Negli ultimi tempi, di fronte ai palesi fallimenti delle politiche di sviluppo, si è tentato di restaurarne la facciata dipingendogli sopra nuove etichette come “durevole”, “sostenibile”, “umano”, “compatibile”, al fine di dare nuovo respiro a un concetto palesemente in debito d’ossigeno.

La fine delle ideologie e delle grandi narrazioni ha portato a un eterno presente, di cui passato e futuro sono diventati piccole ancelle.

Osservando con sguardo critico le più importanti rivoluzioni dell’epoca moderna, possiamo notare che nella maggior parte dei casi lo sforzo maggiore è stato nel distruggere l’esistente, più che nel progettare un futuro vero e proprio.

Note
Leggi anche le citazioni degli antropologi italiani: Ernesto De MartinoIda Magli

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