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Frasi e citazioni di Tomaso Montanari

Selezione di frasi e citazioni di Tomaso Montanari (Firenze, 1971), storico dell'arte e saggista italiano, rettore dell'Università per stranieri di Siena dal 2021. Ha ricevuto il Premio Bassani di Italia Nostra per il giornalismo in difesa del patrimonio culturale e per la stessa ragione è stato nominato commendatore dal presidente della Repubblica.
La maggior parte delle seguenti riflessioni di Tomaso Montanari sono tratte dai libri: Istruzioni per l'uso del futuro (2014), Cassandra muta (2017), Eretici (2020), Dalla parte del torto (2020), Chiese chiuse (2021).
Foto di Tomaso Montanari
Lo chiamiamo progresso: ma siamo sicuri che ciò che muove i nostri passi verso la morte
(del pianeta, della giustizia, delle relazioni umane) si possa chiamare davvero così?
(Tomaso Montanari)

Istruzioni per l'uso del futuro
Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà © Minimum fax, 2014

L'arte è una cosa sola con l'ambiente: come la carne e la pelle di un corpo, che è il territorio del nostro paese. Non esiste, in Italia, un «ambiente» senza arte: e un'arte senza il suo ambiente non sarebbe comprensibile, anzi non sarebbe nemmeno concepibile.

Oggi, una profonda depressione culturale riduce la nostra vita alla sola dimensione economica: o meglio finanziaria. Ciò che interessa è il denaro, da cui trarre nuovo denaro in un processo di partenogenesi: per nulla virginale, però.

Se abbiamo ancora una speranza di rimanere cittadini, e di non essere ridotti a sudditi, anzi a schiavi, del mercato, questa speranza è legata alla forza vitale della nostra dignità. E la dignità della nazione italiana è rappresentata, alimentata, sorretta dal paesaggio e dal patrimonio storico e artistico come da poche altre cose.

Cassandra muta
Intellettuali e potere nell'Italia senza verità Gruppo © Abele, 2017

Dire la verità vuol dire fare politica, credendo in «un’altra storia»: «una politica diversa», di cui continuiamo ad avere una vitale necessità. Perché la questione è molto semplice: un futuro diverso dalla continuazione del presente non potrà che essere costruito da una «politica diversa».

Un conto è essere partigiani di determinati valori (la democrazia, l’eguaglianza) o di una classe sociale (i poveri, i deboli, i senza diritti, gli scartati…), altro conto è “appartenere” a un partito organizzato: cioè a una concrezione di potere chiamata inevitabilmente a servirsi della propaganda, per persuadere. Tutte cose difficilmente compatibili con la libertà della critica e la ricerca della verità.

Dobbiamo avere ben chiaro che osservare l’orizzonte con attitudine implacabilmente critica e dare l’allarme, tutto questo è politica. Vedere nella notte è politica. Rifiutarsi di salire sul carro del potere è politica. Vivere la propria cittadinanza fino in fondo è politica.

È questa, credo, la vera risposta a chi chiede che gli intellettuali facciano politica: e cioè che la fanno già. La fanno prendendo la parola in pubblico: la fanno da cittadini che vivono con pienezza la propria cittadinanza.

Eretici
© Paper First, 2020 - Selezione Aforismario

La parola eretico viene da un verbo greco, che significa scegliere. Gli eretici sono coloro che scelgono con la propria testa. Non si accontentano di quella che tutti dicono essere “l’opinione giusta”, l’ortodossia. Per scegliere, pagano un prezzo e se noi oggi possiamo ancora scegliere ogni giorno della nostra vita, lo dobbiamo agli eretici.

Parlare di eresia e di eretici significa contribuire a costruire anticorpi contro il più pericoloso virus in circolazione: il pensiero unico.

Sapere che è sempre stato possibile pensare diversamente, ma sapere anche che è sempre stato necessario pagare un prezzo per questo, significa ricordarci che costruire un mondo diverso è possibile. Difficile: ma necessario.

La politica cammina da molti anni sulle strade della marginalizzazione del dissenso: l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Regioni, l’antiparlamentarismo, la retorica e la pratica della costruzione del consenso hanno costruito questa falsa democrazia del plebiscito. 

Con l’aiuto della maggior parte dei media, si esalta la dittatura della maggioranza, si predica la necessità di mettere a tacere i “disfattisti”. Nessun partito o movimento – davvero nessuno – accetta il dissenso, e in forme diverse tutti lo reprimono e lo colpiscono.

Le amministrazioni pubbliche e addirittura le università stesse, roccaforti ormai espugnate, del pensiero critico puniscono i loro dipendenti che si azzardino a levare pubblicamente una voce critica. Insomma, l’apparenza di una società liberissima, in cui ciascuno dice ciò che vuole, copre una nuova ortodossia di pensiero unico, che accende i suoi roghi mediatici contro i pochi, liberi eretici.

Il pianeta stesso soccombe sotto i colpi di una macchina da merci insostenibile, ma chi predica l’unica via d’uscita – la decrescita – viene trattato come un anticristo.

Al posto della Chiesa c’è la religione del Mercato, la fede cieca nel dio Denaro: la pubblicità è la nuova evangelizzazione, il consumo è il culto, i fedeli sono i clienti.

Dalla parte del torto
Per la sinistra che non c'è © Chiarelettere, 2020 - Selezione Aforismario

È il paradosso della nostra epoca: non si può non essere contro se si ama davvero la vita. Quanto più grande è il nostro amore per gli uomini e per le cose belle di questo mondo, tanto più grande è il desiderio di cambiarlo, il mondo. Perché questo «sistema sociale ed economico» non è più compatibile con i diritti umani. Con l’esistenza stessa dell’uomo su questo pianeta.

Possiamo – dobbiamo – tornare a desiderare follemente, con implacabile determinazione e insieme con intatta allegria, un mondo giusto. Un mondo in cui «il fine della società è la felicità comune». [1]

Se questo mondo non ci piace, se vogliamo cambiarlo davvero, allora dobbiamo smetterla di accontentarci del meno peggio, del voto utile, del compromesso necessario, della «sinistra di destra».

Oggi bisogna capire che quella che stancamente chiamiamo ancora sinistra è di fatto una destra. Una delle tante destre attuali.

Se non si inverte la rotta, se non si ricomincia a pensare e a operare secondo giustizia, cioè a stare dalla parte dei più poveri, allora quella destra nera tornerà al potere, più forte di prima. E, lo sappiamo, le democrazie possono morire.

Una sinistra è tale solo se contesta alla radice – cioè, appunto, in modo radicale – la dittatura del mercato, l’abisso delle diseguaglianze, lo svuotamento della democrazia. Se invece continua a ripetere che a tutto questo «There Is No Alternative», allora non è una sinistra.

La sinistra divenuta di destra ha permesso al mondo (all’Europa e all’Italia, in particolare) di diventare ancora più ingiusto, più diseguale, più sbagliato.

Abbiamo smesso di credere che un mondo più giusto di questo sia possibile. Abbiamo smesso di provare a diffondere la letizia – sì, l’allegria – di chi lotta dalla parte giusta. Di chi sogna: non per evadere dalla realtà, ma per cambiarla con più forza.

Questo è il punto: restare umani. Oggi non ci riusciamo. 

Peggio della guerra sono stati i decenni di dittatura del mercato e di primato del denaro sull’uomo: divampa la guerra tra i poveri, alimentata dagli imprenditori della paura.

La destra liberista e la destra neofascista hanno in comune la riduzione a mezzo, a strumento, della persona umana. La sinistra deve, al contrario, assumerla come fine, rifiutandosi di considerarla una merce e riconoscendone la dignità.

La privazione della dignità della persona come anticamera della distruzione: è questo il paradigma della riduzione a cose (e dunque della marginalizzazione e, nei casi estremi, dell’eliminazione fisica) dei corpi dei carcerati, dei disabili, dei malati, dei poveri e dei migranti. E, in prospettiva, di noi tutti, sudditi del neofeudalesimo del mercato.

Abbattere i potenti dai troni e innalzare gli umili è ancora oggi la prima parte del programma essenziale di ogni possibile sinistra. La premessa indispensabile per poter rimandare i ricchi a mani vuote e ricolmare di beni chi ha fame.

Creare una società umana: ecco un modo molto efficace per indicare qualcosa per cui vale la pena di combattere. Una società: non un mercato.

I partiti politici – che la nostra Costituzione prevede quali ingranaggi fondamentali della macchina di una democrazia parlamentare fortemente radicata nel paese e nei suoi corpi sociali – si sono trasformati in palcoscenici per capi più o meno carismatici.

La prima battaglia da vincere è quella per cambiare noi stessi.

Oggi abbiamo bisogno di risorgere da questa politica di morte, da questa economia che uccide: e la via per la resurrezione è quella dell’insurrezione. Insorgere interiormente, contro ogni ingiustizia, in un cammino personale di pensiero e di amore: per poi insorgere pubblicamente, in una lotta collettiva.

Cambiare noi stessi, per vedere l’ingiustizia del mondo. E per combatterla, con le parole e con le opere.

Arte è liberazione
(con Andrea Bigalli) © Gruppo Abele, 2020

Nessun popolo europeo è meticcio quanto gli italiani, frutto di infinite fusioni che lasciano traccia in ogni manifestazione culturale. E ogni tentativo di costruire, retrospettivamente, una purezza anche in ambiti più ristretti è destinato a scadere nel ridicolo.

Poche cose come la meditazione, la riflessione, il pensiero profondo possono innescare rivoluzioni.

Lo chiamiamo progresso: ma siamo sicuri che ciò che muove i nostri passi verso la morte (del pianeta, della giustizia, delle relazioni umane) si possa chiamare davvero così?

Chiese chiuse
© Einaudi, 2021

Le antiche chiese italiane rappresentano un perentorio, struggente invito alla conversione collettiva: in senso laico, terreno. Umano, prima che religioso. Esse chiedono il cambiamento radicale dei nostri pensieri, delle nostre scale di valori, delle nostre sicurezze. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere, quintessenzialmente, luoghi pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro presenza ostinata, interrogano la nostra inquieta assenza. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo.

Sono sempre di piú le chiese accessibili a pagamento, o destinate ad attività economiche redditizie o addirittura alienate. E sono tantissime quelle di cui siamo privati nel modo piú radicale: a causa del loro abbandono, del loro degrado. A volte, del loro crollo. O, semplicemente, a causa della loro chiusura.

Il progetto della Costituzione e il progetto del Vangelo non indicano strade diverse. In comune, hanno la centralità della persona umana: non in senso astratto, ma la centralità concreta di ogni essere umano – a partire dai piú poveri, marginali, esclusi, sofferenti.

Le nostre antiche chiese sono ancora con noi: avremo il coraggio di accettare il loro bacio silenzioso, la loro muta risposta di amore?

Note
  1. Il fine della società è la felicità comune: primo articolo della versione del 1793 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
  2. Leggi anche le citazioni dei critici d'arte italiani: Philippe DaverioGillo Dorfles - Vittorio Sgarbi 

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