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Frasi e citazioni di Gillo Dorfles

Selezione di frasi e citazioni di Gillo Dorfles, all'anagrafe Angelo Eugenio Dorfles (Trieste, 1910 - Milano, 2018), critico d'arte, pittore e filosofo italiano, professore di Estetica presso le Università degli Studi di Milano, di Cagliari e di Trieste, e visiting professor in varie università americane.
Foto di Gillo Dorfles
È diventato un luogo comune parlare dell’epoca in cui viviamo come d’una
“civiltà dell’immagine”. Credo, invece, che sarebbe più giusto considerarla come quella
dove avviene spesso un “furto dell’immaginario”. (Gillo Dorfles)

Kitsch
Antologia del cattivo gusto, 1968

Stiamo forse inoltrandoci sempre di più in una stagione etico-estetica in cui si assiste al trionfo del Kitsch? Molti fatti sembrerebbero provarlo: le manifestazioni artistiche e paraartistiche nel campo delle arti visive, dell'architettura, del disegno industriale, dell'arredamento sembrano davvero incamminate su questa china; è sempre più facile intravvedere uno scadimento del gusto (raffrontato ovviamente ad alcuni parametri che parvero, o parevano sicuri) che si accompagna ad uno scadimento etico-sociale.

Il Kitsch è − a parte i suoi aspetti divertenti − il tarlo che corrode la nostra epoca: un fenomeno dilagante, subdolo e corrosivo che si insinua sempre più nelle strutture della società dei consumi di cui è diretta emanazione.

Il Kitsch sta, sempre di più, assumendo le caratteristiche d'una manifestazione tipica del periodo che attraversiamo e sta acquistando un potere che difficilmente verrà contrastato da scritti, ammonimenti, interventi contrari

È l'uomo, in quanto tale, che si viene sempre più trasformando in Kitsch-Mensch − in uomo-Kitsch − ed è soddisfatto, seppur non sempre cosciente, di questa trasformazione.

Solo eliminando l'uomo-Kitsch dalla nostra società, togliendo cioè le ragioni prime che fanno, della società borghese, una società-Kitsch, potremo sperare, oltre che in un miglioramento sociale, anche in un miglioramento globale del gusto.

Artificio e natura
© Einaudi, 1968 - Selezione Aforismario

Non c’è dubbio che una serie di azioni svincolate dai consueti parametri “naturali”, le possibilità comunicative istantanee e ubiquitarie, e soprattutto la creazione di strutture, ambienti, situazioni sganciate dalle antiche “leggi” fisiche e spesso del tutto “virtuali” hanno cambiato, e cambieranno sempre di più, i rapporti un tempo stabili e immutabili tra uomo e mondo.

Che l’attuale civiltà meccanizzata possa costituire un pericolo per l’umanità è un fatto di cui molti sono consapevoli, anzi forse sin troppo allarmati. Anche senza invocare “la bomba”, basterebbero gli inquinamenti atmosferici, la pollution dell’acqua dei fiumi, la nafta negli oceani, il catrame sulle spiagge... a provarlo.

Siamo, oggi, in un periodo di antinaturalità (anche se tutte le nostre scoperte derivano dalla natura): dipenderà dal nostro saper riconvertire in natura questi elementi artificiosi se ci sarà concesso di sopravvivere in un mondo che non sia del tutto disumanizzato.

Al momento attuale siamo portati a vivere sempre di più avvolti da un ambiente artificiale, da oggetti artificiali anzi, addirittura – in seguito ai tanti ritrovati delle metodologie elettroniche – entro gli ambiti d’una “natura virtuale” dove persino la nostra sensorialità viene a essere artificializzata.

Ogni giorno di più va scomparendo dalla vita attiva l’interesse rivolto alle “opere d’arte” in quanto tali. 

Per me – da sempre – “arte” significa anche “mito”, “rito”, anche oggetto creato dall’industria, anche mezzo di comunicazione di massa.

Mentre per il passato una determinata visione-del-mondo era destinata a durare per parecchi decenni, o addirittura per parecchie generazioni, oggi diventa obsoleta già sotto i nostri occhi.

Lo stesso uomo – per la sola ragione d’essere un “animale pensante” e, aggiungerei, un “animal symbolicum” – è già di per sé qualcosa di “estraneo” alla natura, è dunque un prodotto aberrato rispetto alla naturalità delle cose.

Non credo di esagerare affermando che uno studio socio-antropologico serio della nostra epoca culturale non potrà prescindere dal considerare la pubblicità televisiva come una delle fonti più dense di notizie attorno alla situazione psicologica, estetica, economica dell’umanità odierna.

Le caratteristiche preferenze degli uomini, le loro debolezze, le loro mete segrete o palesi, il loro gergo (sportivo, turistico, medico), le loro ambizioni mondane, tutto ciò è, in fondo, racchiuso nelle formule, in apparenza trite, che la pubblicità televisiva ci ammannisce.

Anche quando la pubblicità sia rivolta a prodotti direttamente provenienti dalle viscere della terra (acque minerali, fanghi radioattivi, bagni solforosi...), questi prodotti vengono immediatamente a “denaturarsi”, si ricoprono di etichette multicolori, di contenitori mirabolanti, s’avvolgono in vesti trasparenti di cellophan e di nylon, vengono, in altre parole, immediatamente “oggettualizzati” e, per lo stesso processo, feticizzati.

L'intervallo perduto
© Einaudi, 1980 - Selezione Aforismario

Credo – come ho sempre creduto – che non si debba mai circoscrivere il proprio interesse a un unico linguaggio artistico, trascurando gli altri e creando delle paratie stagne tra le diverse arti, se si vuole avere una visione globale ed equilibrata della situazione artistica contemporanea; non solo, ma che non si debba neppure prescindere dal considerare i legami sempre presenti tra arte e società, arte e psicologia, arte e linguaggio. 

Solo da uno studio globale della creatività umana si potrà derivare una migliore conoscenza dell’uomo e del mondo.

Perdere l’intervallo (e, soprattutto, la coscienza dell’intervallo) significa ottundere la nostra sensibilità temporale e accostarsi a una situazione di annichilimento della propria cronoestesia: della propria sensibilità per il passare del tempo e per la discontinuità del suo procedere.

Ci troviamo di fronte al più colossale e ubiquitario “inquinamento immaginifico” cui la nostra civiltà abbia mai assistito. L’eccesso di stimolazioni visive e auditive dovute ai giornali, ai fumetti, ai film, alla pubblicità ecc., ma anche alla normale segnaletica del traffico, alle scritte luminose... hanno fatto sì che non resti quasi più nulla di libero da segni.

L’horror vacui dovrebbe essere sostituito dall’horror pleni. Sarebbe giusto che si andasse a caccia d’uno spazio vuoto da non riempire; d’un intervallo tra due suoni; di uno spiazzo beante tra le orride villette a forma di lumaca che infestano le nostre coste; d’una pagina candida in un libro stampato; d’un’ora libera da rumori e da suoni.

Malauguratamente solo pochissimi intendono questa fisiologica necessità del vuoto e della pausa. La maggior parte degli uomini è ancora profondamente ancorata all’errore del pieno e non all’orrore dello stesso.

È soltanto da una rarefazione di cose, di oggetti – ma anche di opere d’arte – di relitti del passato, di messaggi del presente – che potrà derivare una vitalizzazione del nostro pensiero creativo.

Quello che vale per l’arredamento d’una casa, vale anche per l’arredamento d’una mente. Troppe notizie, troppe letture finiscono per occludere le nostre possibilità d’immagazzinamento immaginifico. Carichi di troppi elementi che s’accavallano nella nostra mente – spesso subliminarmente – finiamo per confonderli e annegarli in un lattiginoso e amorfo amalgama.

Mentre in passato il contatto dell’uomo con i segni artificiali da lui creati era quanto mai scarso (i libri in pochi esemplari, affreschi soltanto nelle chiese, strade prive di pubblicità ecc.) oggi l’ipertrofia segnica ha raggiunto il parossismo. Ci troviamo a un punto della nostra civiltà in cui avvertiamo molto acutamente la necessità d’una pausa immaginifica: dunque del verificarsi d’un horror pleni.

L’horror pleni, insomma, dovrebbe sostituire l’horror vacui. Solo così si potrebbe riacquistare quelle qualità fantastiche oggi in gran parte perdute; solo così l’uomo potrebbe riottenere una diversa modalità di esistenza.

Oggi le musichette sono soltanto un artificio meccanico inventato per attutire la nostra sensibilità e non per stimolarla, per addormentare la nostra attenzione vigile; per narcotizzare il lavoratore che compie un lavoro stressante; per riempire il vuoto di chi è già interamente vuoto di sentimenti e di pensieri.

La pletora di percezioni, di stimoli, di sollecitazioni alle quali l’uomo è sottoposto è tale da rendere sempre più prossimo un periodo di annichilimento della sensibilità e addirittura della facoltà immaginifica dell’individuo.

Elogio della disarmonia
Arte e vita tra logico e mitico © Garzanti, 1986 - Selezione Aforismario

Occorre non confondere disarmonia con disordine; perché spesso è proprio una “scelta ordinata” a determinare una condizione di disarmonia e di asimmetria. 

L’aspetto più evidente del deteriorarsi delle diverse operazioni artistiche è da ricondursi in definitiva all’assoluto prevalere d’un’“arte di consumo”, d’un’arte di massa, rispetto all’arte colta, elitaria, che ancora dominava fino a pochi decenni or sono.

Ciò che caratterizza queste forme di arte di consumo (jazz, rock, folk, trasmissioni televisive del tipo Festival di Sanremo, fotoromanzi, fumetti banali, più o meno porno) è il loro tendere verso modelli che possiamo senz’altro definire “tradizionali”, lontani dall’avanguardia non solo di oggi ma di ieri, succubi delle norme o pseudonorme ereditate dal passato. Sicché la grande maggioranza dell’input estetico cui soggiace la quasi totalità del pubblico viene alimentata da moduli antiquati e tali da condizionare per intere generazioni il gusto delle stesse.

Horror Pleni
La (in)civiltà del rumore © Castelvecchi, 2008 - Selezione Aforismario

In contrasto con l’antico horror vacui dell’uomo preistorico, che colmava ogni angolo della sua caverna con immagini autoprodotte, oggi “l’orrore del troppo pieno” corrisponde all’eccesso di “rumore” sia visivo che auditivo che costituisce l’opposto di ogni capacità informativa e comunicativa.

Rispetto ai primitivi della terra, che popolavano un mondo ancora vuoto di senso e di segni, oggi noi siamo completamente carichi, completamente saturi di segnali e di comunicazioni.

Un tempo l’arte determinava sì dei cambiamenti tramite cambi di direzione e di linguaggio anche violenti, ma produceva altresì dei risultati durevoli nel tempo. Oggi il cambiamento è divenuto assai più rapido, un po’ anche per la voglia generalizzata di strafare e di stupire che ha contagiato gli artisti. E questo porta a un eccesso di produttività che finisce per danneggiare sia il fruitore sia il critico delle forme artistiche.

La comunicazione politica, e parlo di un’esperienza che è sotto gli occhi di tutti, è diventata una specie di teatro dell’horror pleni, fatto di segnali contraddittori e privi di una qualsivoglia chiarezza e costruttività, raffiche di accuse, smentite e contro smentite, che non consentono a noi involontari fruitori di desumere alcunché di significativo. E questo induce un notevole disagio. 

Questa invasione di notizie, che genera altre notizie per aggiunta e ripetizione, finisce col divenire una forma di pornografia. La pornografia semplice, cioè la visione di filmati o disegni di argomento sessuale, in sé non è preoccupante. Ben altra cosa è questa indiscriminata invasione, questa mancanza di rispetto della vita e della privacy che si determina nella cronaca contemporanea, di fronte alla quale la pornografia sessuale è ben poca cosa.

Per riempire il vuoto della letteratura, si ricorra persino all’abominio di raccontare le faccende più private e più incresciose. Anche questa del dolore è, indubbiamente, pornografia. Non solo: all’invasione della privacy, al voyeurismo si associa su un altro versante un totale esibizionismo di sé, con notizie, scritti, filmati che vengono diffusi in ogni direzione.

L’ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre di più la necessità d’una pausa immaginifica.

Oggi il tempo non è mai ritrovato perché anche il futuro si verifica prima ancora di incominciare e, alla stessa stregua, la durée bergsoniana è ormai sopraffatta da un tempo che “non dura”, perché tutto concorre ad abbreviarlo e spezzettarlo.

Applicare al calcio, al wrestling, al “bel canto”, alla TV, delle componenti mitiche ci dice una cosa: che l’uomo ha necessità di credere (o di fingere di credere) in alcunché di imperituro.

È diventato un luogo comune parlare dell’epoca in cui viviamo come d’una “civiltà dell’immagine”. Credo, invece, che sarebbe più giusto considerarla come quella dove avviene spesso un “furto dell’immaginario”.

I giovani che passano molte ore davanti alla TV o manipolando videogiochi, anziché sviluppare fantasie autonome e autoctone, finiscono per essere sottoposti a un ingurgitamento di figurazioni o “sonorizzazioni” (più che vere musiche) già “precotte”, premanipolate, che saturano la loro capacità autonomamente ideativa.

Avere consapevolezza di sé, se non in senso filosofico, almeno in senso esistenziale, dovrebbe essere un obiettivo per tutti.

La convivenza tra gli umani sarebbe molto meno stressante e i conflitti meno accesi se i nostri atteggiamenti – magari solo simulati e insinceri – ci facessero apparire, non già per quello che siamo, ma per quello che vorremmo sembrare.

Conformisti
© Donzelli, 1997

Guardarsi da coloro che sono "tanto per benino", così ossequienti, così devoti, così servizievoli (anzi servili): sono molto peggio dei "non per bene".

Il perbenismo è fatto per piacere al benpensante, il quale per conto suo non è affatto una persona che coltiva pensieri nobili ed elevati.

Il perbenismo - ossia l'essere comme il faut (il francese esprime meglio il concetto) è una "virtù" che rasenta il vizio. 

Note
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