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"Essere o Non essere" dall'Amleto di Shakespeare

Approfondimento sul celebre passo dell'Amleto: "Essere o non essere; questo è il problema" (To be, or not to be, that is the question), con testo originale in lingua inglese dell'intero monologo di Amleto accompagnato da diverse traduzioni in italiano.

"Essere, o non essere" ("To be, or not to be" in lingua originale inglese) è la frase iniziale di uno dei passi letterari più celebri di tutti i tempi presente nella tragedia dell'Amleto di William Shakespeare, scritta tra il 1599 e il 1602. La battuta è pronunciata dal principe Amleto all'inizio del monologo che apre la prima scena del terzo atto. In esso Amleto si chiede (da qui la locuzione: dubbio amletico) se sia più nobile sopportare le avversità della vita oppure lottarvi contro fino alla morte. La migliore soluzione sarebbe quella di darsi la morte, ma il timore di mali ancora più grandi nell'aldilà ci trattiene dal compiere il gesto estremo. Nella frase "To be, or not to be, that is the question..." (Essere o non essere, questo è il problema), il termine "question" è tradotto in italiano in diversi modi:

Essere o non essere; questo è il problema...
Cesare Vico Ludovici, Einaudi, 1983

Essere… o non essere. È il problema...
Eugenio Montale, Mondadori, 1988

Essere o non essere, è questo che mi chiedo... 
Nemi D’Agostino, Garzanti, 1993

Essere o non essere, questa è la domanda...
Alessandro Serpieri, Marsilio, 2003

Essere o non essere, qui sta il problema...
Luigi Squarzina, Newton Compton, 2003

Essere o non essere, ecco la questione...
Masolino d’Amico, Baldini Castoldi Dalai, 2005

Essere, o non essere… questo è il nodo...
Goffredo Raponi, Liber Liber, 1999

Su questo punto, si riporta una nota molto interessante del prof. Goffredo Raponi su come, a suo parere, debba tradursi correttamente il termine originale inglese "question", spesso tradotto con "questione", "problema", "dilemma" o "domanda":
"To be, or not to be… that is the question: è la frase più celebre di tutto il dramma. Molti curatori intendono “question” per “problema”; il termine “problem” nel senso di “question proposed for solution”, “proposizione logica o matematica con dati certi la cui conclusione è una soluzione e una risposta” esiste nell'antico inglese. Shakespeare non lo usa mai, tanto meno l’avrebbe usato qui, dove non che un problema da risolvere, Amleto enuncia il dubbio eterno dell’uomo nell'esistenza dell’aldilà come liberazione dai mali dell’esistenza mortale: “nodo”, dunque, “nodo” della mente e dell’animo, nel senso dantesco (“…solvetemi quel nodo / che ha inviluppato mia sentenza”, Inf., X, 95-96). Altri traduttori (Lombardo) hanno “questione”, generico che non dice nulla".
Foto di Laurence Olivier con teschio nel film Hamlet
Essere, o non essere, questo è il dilemma... To be, or not to be, that is the question...
(William Shakespeare - Foto: Laurence Olivier, Hamlet, 1948)

To be, or not to be, that is the question
Amleto - Atto III - Scena I - Testo originale in lingua inglese

To be, or not to be, that is the question: / Whether ’tis nobler in the mind to suffer / The slings and arrows of outrageous fortune, / Or to take arms against a sea of troubles, / And by opposing end them? To die, to sleep… / No more, and by a sleep to say we end / The heartache and the thousand natural shocks / That flesh is heir to: ’tis a consummation / Devoutly to be wished. To die, to sleep. / To sleep, perchance to dream. Ay, there’s the rub, / For in that sleep of death what dreams may come / When we have shuffled off this mortal coil / Must give us pause. There’s the respect / That makes calamity of so long life, / For who would bear the whips and scorns of time, / Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely, / The pangs of despis’d love, the law’s delay, / The insolence of office, and the spurns / That patient merit of th’unworthy takes, / When he himself might his quietus make / With a bare bodkin? Who would fardels bear, / To grunt and sweat under a weary life, / But that the dread of something after death, / The undiscovered country from whose bourn / No traveller returns, puzzles the will, / And makes us rather bear those ills we have / Than fly to others that we know not of? / Thus conscience does make cowards of us all, / And thus the native hue of resolution / Is sicklied o’er with the pale cast of thought, / And enterprises of great pitch and moment / With this regard their currents turn awry, / And lose the name of action.

Traduzione di Nemi D’Agostino
Garzanti, 1993

Essere o non essere, è questo che mi chiedo: / se è più grande l’animo che sopporta / i colpi di fionda e i dardi della fortuna insensata, / o quello che si arma contro un mare di guai / e opponendosi li annienta. Morire… dormire, / null'altro. E con quel sonno mettere fine / allo strazio del cuore e ai mille traumi / che la carne eredita: è un consummatum / da invocare a mani giunte. Morire, dormire, - / dormire, sognare forse – ah, qui è l’incaglio: / perché nel sonno della morte quali sogni / possono venire, quando ci siamo districati / da questo groviglio funesto, è la domanda che ci ferma – ed è questo il dubbio / che dà una vita così lunga alla nostra sciagura. / Perché, chi sopporterebbe le frustate e le ingiurie del tempo, / il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, / le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, / l’insolenza delle autorità, e le umiliazioni che il merito paziente riceve dagli indegni, / quando da sé, potrebbe darsi quietanza / con un semplice colpo di punta? Chi accetterebbe / di accollarsi quelle some, e grugnire / e sudare sotto il peso della vita, / se non fosse il terrore di qualcosa / dopo la morte, la terra sconosciuta / da dove non torna mai nessuno, a paralizzarci / la volontà, a farci preferire i mali che abbiamo / ad altri di cui non sappiamo niente? Così / la coscienza ci rende codardi, tutti / e così il colore naturale della risolutezza / s’illividisce all’ombra pallida del pensiero / e imprese di gran rilievo e momento / per questo si sviano dal loro corso / e perdono il nome di azioni.

Traduzione di Goffredo Raponi
Liber Liber, 1999

Essere, o non essere… / questo è il nodo: se sia più nobil animo / sopportar le fiondate e le frecciate d’una sorte oltraggiosa, / o armarsi contro un mare di sciagure, / e contrastandole finir con esse. / Morire… addormentarsi: nulla più. / E con un sonno dirsi di por fine / alle doglie del cuore e ai mille mali / che da natura eredita la carne. / Questa è la conclusione / che dovremmo augurarci a mani giunte. / Morir… dormire, e poi sognare, forse… / Già, ma qui si dismaga l’intelletto: / perché dentro quel sonno della morte / quali sogni ci possono venire, / quando ci fossimo scrollati via / da questo nostro fastidioso involucro? / Ecco il pensiero che deve arrestarci. / Ecco il dubbio che fa così longevo / il nostro vivere in tal miseria. / Se no, chi s’indurrebbe a sopportare / le frustate e i malanni della vita, / le angherie dei tiranni, / il borioso linguaggio dei superbi, / le pene dell’amore disprezzato, / le remore nell’applicar le leggi, / l’arroganza dei pubblici poteri, / gli oltraggi fatti dagli immeritevoli / al merito paziente, / quand’uno, di sua mano, d’un solo colpo / potrebbe firmar subito alla vita / la quietanza, sul filo d’un pugnale? / E chi vorrebbe trascinarsi dietro / questi fardelli, e gemere e sudare / sotto il peso d’un’esistenza grama, / se il timore di un “che” dopo la morte / - quella regione oscura, inesplorata, / dai cui confini non v’è viaggiatore / che ritorni - non intrigasse tanto / la volontà, da indurci a sopportare / quei mali che già abbiamo, / piuttosto che a volar, nell’aldilà, / incontro ad altri mali sconosciuti? / Ed è così che la nostra coscienza / ci fa vili; è così che si scolora / al pallido riflesso del pensiero / il nativo colore del coraggio, / ed alte imprese e di grande momento, / a cagione di questo, si disviano / e perdono anche il nome dell’azione.

Traduzione di Wikipedia
Essere, o non essere, questo è il dilemma: / se sia più nobile nella mente soffrire / i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna / o prendere le armi contro un mare di affanni / e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… / nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine / al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali / di cui è erede la carne: è una conclusione / da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. / Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, / perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire / dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale / deve farci esitare. È questo lo scrupolo / che dà alla sventura una vita così lunga. / Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, / il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, / gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, / l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo / che il merito paziente riceve dagli indegni, / quando egli stesso potrebbe darsi quietanza / con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, / grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, / se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, / il paese inesplorato dalla cui frontiera / nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà / e ci fa sopportare i mali che abbiamo / piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? / Così la coscienza ci rende tutti codardi, / e così il colore naturale della risolutezza / è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, / e imprese di grande altezza e momento / per questa ragione deviano dal loro corso / e perdono il nome di azione.