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Frasi di Giuseppe Tomasi di Lampedusa da "Il Gattopardo"

Selezione di aforismi, frasi e citazioni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo 1896 - Roma 1957), scrittore italiano, dall'indole particolarmente riservata: "Ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone". [...] "Io sono una persona che sta molto sola; delle mie sedici ore di veglia quotidiane dieci almeno sono passate in solitudine. E non potendo, dopo tutto, leggere sempre, mi diverto a costruire teorie le quali, del resto, non reggono al minimo esame critico".

Le seguenti citazioni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa sono tratte dal suo celebre capolavoro: Il Gattopardo, pubblicato dall'editore Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore. Il Gattopardo, considerato uno dei più grandi romanzi della letteratura mondiale, narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi.
I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione
che credono di essere perfetti. (Giuseppe Tomasi di Lampedusa)
Il Gattopardo
1958 (postumo)

L'amore. Certo, l'amore. Fuoco e fiamme per un anno, cenere per trenta.

Esisteva la gente per la quale obbedire, imitare e soprattutto non far pena a chi stimano di levatura sociale superiore alla loro, è legge suprema di vita: lo snob infatti, è il contrario dell'invidioso.

La facoltà di ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri.

L'ira e la beffa sono signorili; l'elegia, la querimonia no.

Morfina lo avevano chiamato, questo rozzo sostituto chimico dello stoicismo antico, della rassegnazione cristiana.

È meglio un male sperimentato che un bene ignoto.

In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare.

Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i piú bei regali.

I siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti; la loro vanità è più forte della loro miseria.

Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi.

Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana.

Le novità ci attraggono soltanto quando sono defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l'incredibile fenomeno della formazione attuale di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae soltanto perché è morto.

Nel termine "campagna" è implicito un senso di terra trasformata dal lavoro.

Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall'isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent'anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.

In nessun luogo quanto in Sicilia la verità ha vita breve

La parola snob era ignota in Sicilia nel 1860: ma come prima di Koch esistevano i tubercolotici, così in quella remotissima età esisteva la gente per la quale obbedire, imitare e soprattutto non far pena a chi stimano di levatura sociale superiore alla loro, è legge suprema di vita: lo snob, infatti, è il contrario dell'invidioso. Allora egli si presentava sotto nomi diversi: era chiamato devoto, affezionato, fedele; e trascorreva vita felice perché il piú fuggitivo sorriso di un nobiluomo era sufficiente a riempire di sole una intera sua giornata.

Essi offrivano lo spettacolo più patetico di ogni altro, quello di due giovanissimi innamorati che ballano insieme, ciechi ai difetti reciproci, sordi agli ammonimenti del destino, illusi che tutto il cammino della vita sarà liscio come il pavimento del salone, attori ignari cui un regista fa recitare la parte di Giulietta e quella di Romeo nascondendo la cripta e il veleno, di già previsti nel copione. Né l'uno né l'altro erano buoni, ciascuno pieno di calcoli, gonfio di mire segrete, ma entrambi erano cari e commoventi mentre le loro non limpide ma ingenue ambizioni erano obliterate dalle parole di giocosa tenerezza che lui le mormorava all'orecchio e dal profumo dei capelli di lei, dalla reciproca stretta di quei loro corpi destinati a morire.

Il suo disgusto cedeva posto alla compassione per questi effimeri esseri che cercavano di godere dell'esiguo raggio di luce accordato loro fra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni. Come era possibile infierire contro chi, se ne è sicuri, dovrà morire? [...] Non era lecito odiare altro che l'eternità.

Finché c'è morte c'è speranza. 

Qui da noi, in Italia non si esagera mai in fatto di sentimentalismi e sbaciucchiamenti; sono gli argomenti politici più efficaci che abbiamo.

Tutto questo non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli...; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.

Morire per qualche d’uno o per qualche cosa, va bene, è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti.

Libro di Tomasi di Lampedusa consigliato
Il gattopardo
Curatore G. Lanza Tomasi 
Editore Feltrinelli, 2002

Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitabile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.