Scrittura Breve - Articoli sul genere aforistico

Qui di seguito si riportano alcuni articoli sulla scrittura breve e sul genere aforistico. Il primo articolo, intitolato Il sapore ironico della brevità, è di Antonio Castronuovo; il secondo, che riguarda  la storia della massima, è di Italo Zingarelli; il terzo, che riguarda l'aforisma e i suoi sinonimi, è di Giorgio Colarizi.

Foto di Antonio Castronuovo
Temeva l'aforisma che superava la seconda riga. (Antonio Castronuovo)

Il sapore ironico della brevità
Sulla recente produzione aforistica in Italia
Antonio Castronuovo, in L’Indice dei libri del mese, a. XXVIII, n. 9, settembre 2011

Presenza editoriale esigua e un po’ scontrosa, immune dallo strepito dei duelli narrativi, la produzione aforistica scivola taciturna; ma è caparbia e non passa anno senza che appaia qualche titolo di rango. I lettori che ne fruiscono (anch'essi in numero esiguo e ugualmente ostinati) sono inclini alla fruizione colta, propensi alle invenzioni linguistiche di sapore ludico, persone che sanno comunque apprezzare quegli aromi di base – ironia, scetticismo e scatto – senza i quali la forma breve perde smalto. L’accusa di essere il cugino studioso dei pensierini d’amore, quelli che accartocciano il cioccolatino, non offende l’aforisma più di tanto: orgoglioso di essere stato “sdoganato” dalla magnifica antologia Scrittori italiani di aforismi che Gino Ruozzi approntò anni fa per i Meridiani, il genere tiene la posizione, come prodotto di nicchia ma molto spesso di qualità. Ce ne rendiamo conto se solo puntiamo l’attenzione sugli ultimi tempi.

Notiamo subito che vi ha fatto ingresso anche un noto poeta, Valentino Zeichen, con gli Aforismi d’autunno (Roma, Fazi, 2010, pp. 168, € 15,00). È una collezione di arguti frammenti che, fedeli al titolo, manifestano una qualità pensosa e una tonalità pastello. Zeichen tradisce le origini poetiche nell'impaginazione “epigrammatica” dei suoi frammenti, che originano da uno sguardo ironico sulla società («I promotori culturali dai nobili fini hanno soppiantato la religione inducendo i lettori alla bulimia culturale, che senza volere rientra nella strategia del trionfale consumismo»), dagli involontari misfatti che un cultura può compiere («Crimini letterari. / Così, per eccesso di clarté / i francesi ammazzarono Rabelais») e naturalmente da una disincantata auto-osservazione («Provenendo dal niente / il mio divenire / non può che finire / in questo luogo comune»).

Il disincanto non deve infatti mai mancare in un’arte, come quella dell’aforisma, che si fonda su dubbio e disinvoltura, su ironia e irriverenza: ingredienti necessari alla buona riuscita di ogni onesto autoritratto intellettuale. Come quello che è riuscito a delineare Mario Andrea Rigoni nella collezione aforistica Vanità (Torino, Aragno, 2010), di cui abbiamo parlato su queste pagine nel febbraio scorso e dal quale non ci separiamo senza trarre un ultimo esempio, capace di pungere alcune quiete e danarose eredità letterarie: «Quanti mediocri prosperano all’ombra della fama dei loro padri».

Su un territorio assai diverso scorrazza Alberto Casiraghy, amabile aforista di linea “meriniana”, con Gli occhi non sanno tacere (Novara, Interlinea, 2010, pp. 84, € 14,00). I suoi pezzi sembrano lievi sguardi sul cuore e sul mondo, sorprese visive e sonore, ben in linea con la grazia dei libri da lui stampati in veste di editore e tipografo, le famose plaquette del Pulcinoelefante (è un piacere essergli al fianco quando, disponendosi alla stampa nella sede di Osnago, fa roteare gli ingranaggi di un torchio d’antan). Oltre a fare l’editore, suona il violino e disegna creature immaginarie che, tracciate in punta di penna, vanno infine a popolare le sue collezioni aforistiche, ormai giunte alla ventina. La nuova collezione di Casiraghi – questo il vero nome – è appunto edificata all'insegna degli occhi che, dopo aver visto, non sanno tacere. Sono infatti tratti visivi a segnare la forma di aforismi come «I grandi amori si riconoscono anche dai contorni», o «La vera felicità non sta mai ferma», o ancora «L’infinito è un punto inquieto senza risposte». Il tutto in un flusso di nitido acume, tanto che a un certo punto l’autore si chiede ironicamente: «Gli aforismi migliori sono quelli che non si fanno capire?». Domanda retorica che implica, per quanto mi riguarda, una fatale risposta negativa: «No, i buoni aforismi devono farsi capire». Come succede per questa devota confessione dell’autore: «Appena posso cerco l’aldilà».

Le anime fanciulle dell’aforisma hanno trovato in questi anni una materna nutrice: il premio biennale “Torino in sintesi”, alla base del quale sta il segreto lavoro dell’aforista Sandro Montalto (di cui ricordiamo L’eclissi della chimera, uscita anni fa da Joker).

Sorta nel 2008, la manifestazione premia questa specifica produzione facendo emergere creazioni di tutto rispetto, come la collezione vincente nel 2010: A mani alzate di Mauro Parrini (Bologna, Pendragon, 2009, pp. 80, € 14,00), aforismi lucidi, penetranti, che sembrano vibrare di sonorità “cioraniane” ma che infine svelano una soave disposizione umana. Insegnante a Magenta, l’autore è riuscito a compiere una rara operazione: inventare convincenti aforismi sul tema dell’uso sportivo del corpo. Che io sappia, la cosa fu tentata solo da Jean Giraudoux sulla scia dell’emozione per i giochi olimpici del 1924, quando raccolse la serie di lampi de Lo sport. Ora possiamo goderci le belle schegge che Parrini dedica al cosmo ciclistico: «Una bicicletta che cade turba l’equilibrio del mondo, come il pianto di un bambino», oppure «Il paradiso in terra non esiste, ma chi va in bicicletta ci arriverà comunque». Come ogni buon aforista, Parrini prende le mosse dalla teoria della brevità esposta in brevi tratti, con illuminazioni del genere: «L’aforisma è un buco nero nel linguaggio: chi ci cade dentro rischia di non uscirne più». Fino a conquistare quella rarefatta materia di scetticismo, anche sociale, che solo il lettore semplicista può definire retriva: «Chi è il progressista? Chi pensa di stare meglio quando invece starà peggio», oppure «La comunicazione è l’ovvio dei popoli», o ancora «Il sonno della ragione genera mostri che la ragione ha sempre sognato di generare». Sia detto: se il mondo non viene messo in discussione con la tagliente levità dell’aforisma, chi mai avrà il coraggio di dire le cose come stanno? Può farlo solo chi pratica la forma breve, chi spudoratamente afferma: «Togliete il superfluo dal mondo, e resterà un aforisma».

Il premio torinese ha avuto il merito di riconoscere alle forme brevi quella dignità letteraria che già la teoria aveva loro assegnato. E dalle varie sezioni del premio sono emersi altri ottimi prodotti, come le Hommelettes dell’avvocato luganese Mario Postizzi (Torino, Aragno, 2007, pp. 66, € 5,00). Lo stile di Postizzi tende a catturare l’attenzione utilizzando il gioco di parole, il calembour, la sorpresa, quella pointe aforistica che – si affretta a dichiarare l’autore – «deve colpire, non fare colpo». La differenza è di rilievo: in altri termini ci viene detto che l’aforisma non deve stupire bensì percuotere. E certamente Postizzi lo fa in pezzi del genere: «Con l’adulterio si esce dal seminato per entrare nell’anonimato», oppure «Per mantenere un segreto il cervello deve inghiottire la lingua». [...]

La produzione aforistica, uscendo a volte presso piccole case editrici (eroiche imprese perennemente in lotta con una difficile visibilità), rischia a volte di passare inosservata. Esitante risonanza ha infatti avuto la bella collezione di Giovanni Soriano Finché c’è vita non c’è speranza: diario aforistico 2003-2009 (Patti, Kimerik, 2010, pp. 102, € 14,00). Fin dalla premessa l’autore dichiara – con un’invidiabile dose di coraggio – la propria natura di misantropo e nichilista, annunciando il graffio che nel testo segue: «Ho l’occhio cinico». Trattandosi di un occhio un po’ gelido, il lettore teme che il libro rischi di cadere, e invece l’autore gestisce bene l’impertinenza e, con fare elegante, sfugge alla banalità. Difficile pensarla diversamente con chi cesella pensieri del genere: «Amare è umano, sposarsi è diabolico», «I soldi non fanno la felicità, la comprano», «Vivere: un modo assai complicato di morire». Per definizione, l’aforista deve nutrire almeno un pizzico di pessimismo («Ottimista: uno che, non avendo sale nella zucca, lo cerca disperatamente nella vita»), una dose di scetticismo («Dio è un ansiolitico. Questo spiega il suo successo») e una solida consapevolezza dello strumento che maneggia, come si desume da ciò che colloco a sigillo di una collezione da conoscere: «Scrivere aforismi è un’arte, la più breve».

Breve storia della Massima
Italo Zingarelli - Introduzione a Le minime di Morandotti © Vanni Scheiwiller, 1979-1980

Chi volesse tracciare una storia della massima come espressione etico-concettuale dovrebbe rifarsi innanzitutto ai testi fondamentali di tutte le grandi religioni, dal Vecchio e Nuovo Testamento (Proverbi, Ecclesiaste, Sapienza, Vangeli) agli scritti di Confucio, ai discorsi di Budda, ai Veda, al Corano, non meno che alle concezioni dei grandi filosofi e pensatori di tutti i tempi: da Protagora a Socrate e Platone, da Aristotele agli Stoici, da Cartesio a Kant. Ma Kant precisa trattarsi di verità e di norma soggettiva, pertanto non valida come legge universale. Come espressione di verità soggettive, in effetti, massime e aforismi sono incastonati come gemme nelle opere maggiori di tutte le letterature; basti pensare ai tragici greci, a Virgilio, Orazio, Dante, Shakespeare, Molière, Machiavelli, Cervantes, Goethe, Dostoevskij.

Invece come genere letterario a se stante - ove si prescinda dalle letterature orientali che richiederebbero un discorso a parte - il numero dei loro cultori risulta assai più limitato. Vi figurano anche degli italiani, ma i più fecondi sono stati senza dubbio i tedeschi e i francesi, probabilmente perché portatori di una cultura permeata di pensiero filosofico. Alle origini stesse di questo particolare filone troviamo Ippocrate, padre della medicina, i cui Aforismi - il termine nasce con lui - riguardano sostanzialmente l'arte di scoprire le malattie e di guarire chi ne sia affetto. E alla medicina si riferiscono vari secoli dopo anche gli aforismi della Scuola Salernitana, regole sanitarie in versi latini, che ebbero grande fortuna nel Medio Evo.

Di ispirazione più propriamente filosofica, con una forte impronta etico-religiosa, sono invece i Ricordi di Marco Aurelio Antonino, che possono forse essere considerati come una delle prime raccolte di riflessioni personali, in cui peraltro le massime sono da rintracciare in lunghi periodi, talvolta di non facile lettura.

La trattazione d'una determinata materia in aforismi passava, in seguito, nell'ambito più propriamente. letterario, assumendo l'odierno significato di breve massima che condensa in forma succinta e pregnante il succo di riflessioni e esperienze personali. In Italia bisognerà arrivare fino al '500 per trovare un'altra raccolta di massime che rappresenti il distillato di un'esperienza e di un modo di pensare individuali, ugualmente caratterizzata da un alto rigore morale anche se improntata a uno scetticismo più amaro: i Ricordi politici e civili di Francesco Guicciardini. «In una letteratura, com'è la nostra, povera di raccolte di massime, di osservazioni, di pensieri, di divagazioni personali, - scrive il Sapegno - i Ricordi sono un libro singolare e nuovo, che troverà la sua ideale continuazione, fuori d'Italia, in opere come gli Essais di Montaigne, le Maximes di La Rochefoucauld, i Caractères di La Bruyère, l'Oraculo di Baltasar Gracián, e altre siffatte fino agli Essays di Bacone, ancora così fortemente impregnati di spirito del Rinascimento e di sapienza italiana».

Sono proprio i pensatori e moralisti francesi del «Grand Siècle», a conferire alle massime piena dignità letteraria e compiutezza stilistica, stabilendo una tradizione che poi prosegue nel '700 con accenti sempre più sarcastici fino a Chamfort e Voltaire. Successivamente, col Romanticismo, il genere come tale subisce un'eclissi, anche se di pensose riflessioni e di brillanti aforismi pullulano il romanzo e il teatro, la poesia e la saggistica, le memorie e i diari prodotti dal genio francese fino ai nostri giorni. Così nella letteratura anglosassone, pur tanto ricca di fervori moralistici, di spirito satirico e di humour, si ripete un fenomeno del genere, per cui dopo Bacone e Pope, il «wit» dell'epoca elisabettiana trova espressione e continuazione soprattutto nel teatro, nella saggistica e nel giornalismo, senza quasi mai assurgere a rango di genere. Ma come non pensare a Samuel Johnson e a Dryden, a Swift, a Carlyle (e oltre oceano a Franklin, a Emerson e Twain), per non parlare di Walter Pater, Oscar Wilde e George Bernard Shaw.

L'eredità dello spirito satirico anglosassone e dell'ironico scetticismo dei moralisti francesi viene invece raccolta in Germania da Lichtenberg, che apre una feconda tradizione che si perpetuerà per tutto 1'800 e oltre, passando attraverso il cupo pessimismo di Schopenhauer e il folgorante irrazionalismo nietzschiano.

Questa tradizione non trova riscontro nella letteratura italiana degli ultimi due secoli, ma, a prescindere da quella ricchissima miniera che è lo Zibaldone leopardiano, riflessioni, massime e aforismi non mancano negli scritti del Foscolo, del Tommaseo, del Nievo, di Mazzini e di alcuni minori come il D'Azeglio, il Bini, il Settembrini.

In tempi a noi più vicini nessuno scrittore si è dedicato sistematicamente al genere aforistico. Soltanto occasionalmente, nel contesto di opere di natura diversa, letterati quali Panzini, Bernasconi, Bontempelli, Folgore, Savinio e Flaiano.

Come verità soggettive, secondo la definizione kantiana, massime e aforismi, oltre al valore intrinseco del concetto che esprimono, possono anche fornire una chiave per penetrare nella personalità dell'autore. E in tal modo si scoprono singolari se non stupefacenti corrispondenze. Come quando troviamo due filosofi così profondamente diversi come il caustico Voltaire e l'ipocondriaco Schopenhauer d'accordo nel sentenziare che lasceremo questo mondo più sciocco e più imbecille di quanto lo abbiamo trovato arrivandoci. O quando in rapporto all'affermazione attribuita a Machiavelli che il fine giustifica i mezzi, scopriamo che a suo tempo Ovidio aveva detto che il risultato giustifica l'atto e che, alquanto dopo il Segretario Fiorentino, l'olimpico Goethe scrisse che il fine santifica i mezzi. Il che dimostra che quando, in ogni tempo e in ogni luogo, delle lucide intelligenze si chinano a esplorare la natura umana, pervengono alle stesse disincantare conclusioni.

L'aforisma e i suoi sinonimi
Giorgio Colarizi, in Zibaldone aforistico © Manfredi Colarizi Graziani, 2001

Nello sciorinare i sinonimi di aforisma, troviamo: adagio, apoftegma, massima, sentenza, precetto e proverbio; e tutti qui si respingono. 

Aforisma: da aphorizein, limitare, quindi "definizione", concetto che in matematica implica con saggia economia il minor numero possibile di parole. La matematica, chissà perché, usa però il termine di aforisma per indicare un problema insolubile, quale per es. la quadratura del cerchio. Secondo Kant, potremmo accostare l'aforisma ai due giudizi di modalità: quello problematico, fondato sui rapporti di possibilità, e quello assertorio, su rapporti reali non necessari o verità di fatto che dir si voglia. Ma come può la logica accalappiare l'infinita varietà degli accadimenti e sentimenti e comportamenti umani, sospinti o sconvolti dallo Spirito che soffia dove vuole? Quanto sopra aveva lo scopo di accennare ai significati che non competono all'aforisma o che solo in parte l'accostano. Questione di sinonimi, e quindi di sfumature. Vorremo dire con questo che il suo dominio è così vasto da farlo piuttosto denominare "pensiero"? C'è chi l'ha fatto, personaggi di prim'ordine di fronte ai quali non c'è che da togliersi il cappello. Il termine esprime un concetto così vasto da comprendere tutto il panorama desiderabile; ma, oltre che vasto, è vago. Per quel che ci serve, anche nell'aforisma vediamo quasi una specola che abbraccia virtualmente tutti i panorami in cielo e in terra visibili; ma conserverà nel contempo caratteri più o meno definitori; si contenterà quindi di poche parole, e soppesate col bilancino del farmacista; anche quando una Musa letterata suggerirebbe maggior generosità. Naturalmente resta il pericolo di assumere una mùtria oracolare, con tutta l'ostilità che essa generalmente oggi riscuote, soprattutto fra gente costretta già ad ascoltare gli oracoli dei vari santuari politici e sociologici. Ciò si riflette particolarmente nella forma aforistica: A è B.

Adagio: se vogliamo credere a filologi e linguisti che lo apparentano al verbo latino aio, varrebbe quanto "affermazione" e, non foss'altro perché immune da presunzioni, potrebbe anche andar bene. Ma all'orecchio italiano suona ambiguo e vecchiotto, e d'altra parte non sembra che i latini usassero spesso il loro adagium. Dunque lasciamolo lì. 

Apoftegma: la nobile ascendenza greca lo renderebbe forse accetto ai nostri contemporanei, imbambolati dal lucore scientifico dei termini che la grecità offre appunto alla scienza. Meglio cedere alle esigenze della nostra lingua, che mal sopporta quel terribile cozzo di consonanti. E in greco sembra andar peggio, per la re trazione dell'accento (apophthegma), anche se la presenza della doppia aspirazione agiva forse come lubrificante di questo saltellante congegno. Comunque la parola sta per "detto altisonante, memorabile"; epiteti che debbono attendere i posteri, né se ne può fregiar da sé nemmeno il più superbo autore. 

Massima: sottintende "maxima sententia", ossia un pronunziamento di particolare importanza morale o giuridica, con possibilità di applicazione normativa: così le massime dello spietato La Rochefoucauld, così le raccolte di sentenze giuridiche fino agli odierni "Massimari". Sentenza: da sentire come "manifestare il proprio sentimento su .... ", "giudicare". Termine troppo ampio, perché ogni affermazione è un giudizio; troppo ristretto, in quanto richiama ad una decisione di sapore giuridico o dogmatico (gr. dogma = editto pubblico, sentenza).

Precetto: da prae e capère+praecipere, letteralmente "prendere prima di .... ". Denuncia subito la sua autorità normativa, vuoi religiosa, vuoi pedagogica, vuoi terapeutica. Il principio di autorità è stato sempre odioso agli spiriti più vivaci e recalcitranti o ai nevrotici, così come in altri tempi fu spregiata la figura del povero precettore. Restano accetti solo i precetti medici, per il grande affetto che serbiamo a questo nostro corpo di morte.

Proverbio: è un po' tutto quanto sopra, ed altro ancora, in veste sempre sintetica e spesso poetica; come la musica e la poesia popolare, è opera di un singolo che riassume un sentimento collettivo. Anche l'aforisma è opera di un singolo, ma quando mai questo signore presumerebbe di rappresentare l'anima di una collettività? 

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