Aforisma: come, cosa e perché

In questa pagina presentiamo quattro saggi sull'aforisma che rispondono alle seguenti domande: 1. Come nascono gli aforismi? 2. Cos'è un Aforisma? 3. Perché si Scrivono Aforismi?
Il primo saggio: Come nascono gli aforismi è di Alessandro Morandotti (1909-1979); il secondo e il terzo saggio, dal medesimo titolo, Cos'è un Aforisma? sono di Roberto Gervaso e Alberto Schön; il quarto saggio: Perché si Scrivono Aforismi è di Emilio Rega.
Chiusura lampo
L'aforisma è la chiusura-lampo del bagaglio delle esperienze. (Alessandro Morandotti)

Come nascono gli aforismi
Le condizioni ambientali e spirituali che favoriscono la germinazione degli aforismi.
Alessandro Morandotti, in Minime © Scheiwiller, 1980

Una caratteristica dell'aforisma è di sottrarsi a rubricazioni e classificazioni scientifiche. Il che, lo riconosco, è senz'altro irritante. La sua struttura è ambigua e sfuggente. Pretenderebbe al tempo stesso di unire concisione a vastità concettuale, soggettivazione estrema a validità universale, annotazione futile a profondità, l'eccezione alla regola, il restrittivo al generalizzato, consentendo ugualmente di trarne succo gustoso, anzi sensato e, talvolta, persino utile
Il meccanismo che presiede alla formulazione di massime è dei più elementari. Nasce da un'intima esigenza di condensare in poche parole esperienze vissute e osservazioni compiute, allo scopo di trasformarle in precetti di vita per sé e da trasmettere ad altri. 
Comunicare ammonimenti, raccomandazioni, consigli, regole di comportamento, riflessioni esistenziali. Nulla di più ovvio. Da sempre, oggi e in futuro. Una necessità insopprimibile dello spirito al servizio dei rapporti umani. Comunemente quest'esigenza si esprime in termini grezzi. Quando invece diventa oggetto, da parte di letterati e filosofi, di particolari attenzioni, subentra la preoccupazione dell'efficacia estetica della formulazione e il precetto assume la forma di aforisma. Allora soltanto si è compiuta la trasformazione in arte. 
Una forma letteraria peculiare che si manifesta attraverso una specie di esplosione concentrata dell'io, cui fa da miccia il conflitto tra esperienza e sistema di pensiero imperante. Un tentativo disperato − spesso mascherato buffonescamente − per sottrarsi alle incrostazioni di un conformismo filosofico-letterario secolare, col miraggio di instaurare una rinnovata spregiudicata visione critica del mondo dei sentimenti e del pensiero. Istituire un diverso rapporto tra l'io e il cosmo − superate le remore di artificiose strutture mentali − su base paritetica.
Questo in realtà il fine ambizioso, consapevole o no, che ha dato origine a questo genere, arduo quanto l'assunto che si propone.

Cos’è l’aforisma
Roberto Gervaso, Prefazione a La vita è troppo bella per viverla in due, Mondadori, 2015

Cos’è l’aforisma (dal greco aphorismós, “definizione”)? Una sentenza, un motto, una massima, un proverbio “firmato”? Tutte queste cose assieme: un fiore di serra che, ben coltivato, emana una sapida fragranza.
“Legge della morale, oracolo corto e conciso” per Ambrose Bierce; “Non la verità, ma una mezza verità, o una verità e mezzo” per Karl Kraus; per noi saggezza liofilizzata, riflessione perentoria, anche se cinica, sull’esistenza. Gandolin, infine, lo paragona all’asparago: il buono sta tutto nella punta.
Il genere, sebbene antico, assurse tardivamente a dignità letteraria. Già fra il V e il IV secolo a.C. Ippocrate affidò alla massima i princìpi fondamentali della sua Ars medica. E fece bene ché, sintetizzati in quel modo, si fissarono con maggior incisività nella memoria dei discepoli e dei seguaci.
I letterati sapienziali, i poeti gnomici ed epigrammatici, i moralisti, i filosofi e i pensatori dell’età classica – greca e latina – e di quella cristiana non disdegnarono l’aforisma, che, se di buona lega, ha il pregio della chiarezza e della concretezza. Se ne servì magistralmente Marc’Aurelio nei suoi Ricordi, distillato di edificanti meditazioni, intrise di cosmico pessimismo.
Un secolo prima, il suo maestro Seneca, allievo, a sua volta, dello stoico Zenone, infarciva quelle autentiche perle di saggezza che sono le Lettere a Lucilio di lapidarie e corroboranti sentenze.
Anche molti scrittori cristiani coltivarono questo genere, di presa ben più immediata delle tradizionali esposizioni scolastiche, elitarie e prolisse.
Nel Cinquecento, la scrittura per sentenze ebbe due campioni: uno italiano, l’altro francese: Machiavelli e Montaigne. Anche Tommaso Moro e Francesco Bacone attinsero a questa fonte. Il che giovò non poco alla diffusione delle loro opere.
Ma il grande secolo dell’aforisma fu il Seicento, soprattutto francese. Merito del duca François de La Rochefoucauld, che nelle sue celebri e celebratissime Massime mise a nudo, con scultorei tratti di penna, l’uomo, le sue rare virtù, i suoi molti vizi, le sue tare, le sue quotidiane viltà.
L’aristocratico frondista, inviso alla corte, analizzò con spregiudicato acume “il motivo interno, unico e immutabile, di qualunque azione umana”: l’amor proprio.
A lui, con varia fortuna, si rifaranno un po’ tutti i cultori di aforismi. Con La Rochefoucauld, che anche Voltaire avidamente lesse, al genere aforistico fu riconosciuto quel crisma letterario che fin allora era stato negato, forse anche a ragione. L’opera del duca François divenne un classico per la finezza psicologica, l’inquietante profondità e la felicità stilistica.
La Rochefoucauld diventò un modello da imitare e, possibilmente, da superare (ma nessuno lo superò, né lo uguagliò).
Per restare in Francia, La Bruyère, Vauvenargues, Chamfort, e lo stesso Montesquieu, fornirono saggi notevoli di letteratura sapienziale, cui, nei secoli successivi, s’ispirarono autori di grido.
A brucare in questo pascolo furono anche gli inglesi. Oltre ai già citati Moro e Bacone, che potremmo definire moralisti-utopisti, Jonathan Swift (Settecento) e Samuel Butler (Ottocento), classificabili come moralisti-antiutopisti. E ancora: Oscar Wilde e George Bernard Shaw.
Nei due terribili irlandesi, nati entrambi nel XIX secolo, l’aforisma ha il gusto e l’accento del paradosso, di una verità acrobatica o, se preferite, vista a distanza. Le loro commedie – ma non solo queste – traboccano di massime, veri fuochi d’artificio, piroette irresistibili di funamboli dell’intelligenza, di artisti impertinenti fino all’iconoclastia.
E in Italia? Il genere non ha avuto la stessa fortuna, anche perché la paludata e superbiosa tradizione accademica ha sempre ostacolato la fioritura di una forma letteraria tanto schietta, cruda e irriverente, scevra di lenocini, arzigogoli, di formalismi, gesuitismi, tartufismi.
I nomi si contano sulle dita di una mano. Limitandoci a questo secolo, tre – più degli altri – hanno le carte in regola per aspirare al rango, al titolo, ai galloni di aforisti: Leo Longanesi, Mino Maccari, Ennio Flaiano.
I primi due furono amici-nemici, autentici enfants terribles, sempre controcorrente, eterni bastian contrari; il terzo, più solitario, scettico e malinconico, fustigò tutti gli “ismi” (conformismo, opportunismo, camaleontismo). Le sue massime sono quasi diventate luoghi comuni (ma non per questo meno preziose). Una per tutte: “Gli italiani corrono sempre in difesa del vincitore”.
Da una decina d’anni, nel nostro Paese dilaga l’aforismo-mania o – per dirla con Gesualdo Bufalino – l’aforismofilia: tutti sentenziano, siamo diventati un popolo di principini de Ligne. Ne sanno qualcosa gli editori, sommersi da manoscritti e dattiloscritti dove l’intero scibile è passato in rassegna e al setaccio, ridotto in capsule, discoidi, pillole di vera o presunta saggezza. Qualche perla e molta zavorra; pochi pensatori e tanti ciarlatani.
La brevità fa credere agli aspiranti estensori che sia facile dare all’aforisma corpo e anima, forma e sostanza, ma così non è.
L’aforisma, al di là delle battute – anche le più paradossali –, non è un esercizio letterario facile. Richiede un certo talento, la capacità di guardarsi dentro senza indulgenze, di autoanalizzarsi senza compiacimenti, di metter insomma a nudo, con la giusta dose di cinismo, l’uomo. L’uomo con i suoi vizi e le sue virtù, le sue passioni e le sue debolezze, i suoi eroismi e le sue codardie.
Ognuno di noi racchiude in sé l’intera umanità, fatta con gli stessi ingredienti, pur se diversamente combinati, secondo ricette variabili nei tempi e influenzate anche da fattori ambientali.
L’aforista generalizza, ma solo dopo aver sottoposto a uno spietato esame etico e spirituale, a una rigorosa prospezione psicologica la magmatica intimità dell’Ego.
Fatto questo, bisogna saper distillare in una frase di dieci-quindici parole il risultato di una simile ricerca, dargli una forma elegante, accattivante, perentoria.
L’aforisma – come la massima, la sentenza e il proverbio – ha uno scopo didascalico, un fine morale (ma non moralistico): invita il lettore ad approfondire una riflessione, a far tesoro di un insegnamento.
L’aforisma, se non è un calembour, un gioco di parole, una battuta, con l’unica pretesa di divertire o di sbalordire piacevolmente, è una microscopica lezione di vita, una scheggia di filosofia pratica, una goccia di benefico elisir che allarga il cuore e dilata la mente: da assumersi in qualunque ora della giornata, prima o dopo i pasti (all’occorrenza, anche durante), soli o in compagnia. Non esistono controindicazioni, rischi non se ne corrono. Se non quello di diventare più saggi. O, forse, più pazzi.

Cos'è un aforisma?
Considerazioni sullo scrivere e leggere aforismi
Alberto Schön, prefazione a "Infallibili errori" © CLEUP, 2006

Dire cos'è un aforisma è come rispondere alla domanda: cos'è un pensiero? Si può solo per approssimazioni – e per aforismi. Alcuni aforismi sono come le foto istantanee. E anche questo è un aforisma. Alcuni sono titoli di racconti, gemme troppo piccole e verdi, fogli di scena di spettacoli mancati, accuse fondate ma senza le prove, dichiarazioni d’amore altrettanto poco fondate, veli da sollevare, nuove tavole del Rorschach, come dire contenitori in cui ciascuno possa versare i suoi contenuti. A volte sono stupidaggini intelligenti, nature morte più vive di un ritratto, ossimori utili insomma. 
Ai miei penso come a riflessioni, ma anche immagini che mi sono venute in mente lavorando con pazienti, dialogando in silenzio con autori di libri, e con me stesso, soprattutto al risveglio, nel corso degli ultimi cinquant'anni. Un aforisma si scrive e si legge in mezzo minuto. Meglio se dopo averci pensato per decenni. Non occorre dire che l’ironia è un ingrediente molto utile, almeno per il mio modo di pensare i pensieri. Alla sola idea di compiere un’operazione così elevata, mi viene da sorridere. 
Nel poco spazio di un aforisma si raccontano storie piccole, dense che possono contenere grandi storie, pensieri, arrabbiature piccole e grandi, dialoghi con altri e con sé, prese in giro e frecciate, molti giochi di pensieri e parole, critiche, movimenti riparativi, appunti per un pensiero più sviluppato, irritazioni con sé, partecipazione alla vita pubblica, desideri di ogni genere, tra i maggiori quello di scrivere qualcosa che sia letto anche da un lettore frettoloso, cioè dalla maggior parte dei lettori. 
Gli aforismi sono anche questo. Anche altro. Soprattutto sono giochi in cui si combinano elementi, a volte poco coerenti, sotto la pressione della sintesi, fino a trovare uno o più sensi. Credo che gli aforismi li scriva più spesso chi non è scrittore di professione, preferisce l’annotazione aperta a sviluppi imprevisti, i racconti brevi e non ama i romanzi organizzati, dettagliati, di centinaia di pagine. 
Gli aforismi li scrive chi riflette, annota, sta in osservazione e quindi è sempre un po’ esule, spesso solitario, a volte antipatico. A volte annotare un pensiero precede lo sviluppo in versi o in prosa. Ad ogni passo si sente una tensione etica, a volte un po’ conservatrice, ma non sempre in senso negativo. L’anticonsumismo ha per modello società pre-moderne. È una posizione da conservatori?

Perché si scrivono aforismi?
Emilio Rega, in Identikit di uno scrittore di aforismi, 1999

Lo scrittore di aforismi è uno che ci tiene alla VERITÀ e che la sa dire. Glielo consente la sua cultura ma soprattutto la sua ricettività (bella l’immagine musiliana riguardo alla poesia: “come se il vento da lungi recasse un messaggio…”). Si tratta quindi di un sapere per illuminazioni, dove la sintesi, folgorante, trovata dallo scrittore di aforismi equivale a quella di una formula o di una definizione.
La particolare capacità che ha lo scrittore di aforismi riguardo alla espressione allegorica, simbolico-sintetica, emblematica, lo rende inoltre partecipe della magia delle lettere e dei numeri. Lo affascina l’esattezza, la simmetria, l’armonia, l’ordine, la misura, la bellezza, la purezza, l’unita’ delle cose, di cui egli istintivamente ed ostinatamente va alla ricerca, anche quando sembrano rendersi improvvisamente irreperibili (ma solo in apparenza). Egli ama infatti andare nel profondo, “sondare gli abissi”, e l’aforisma riuscito è sempre un premio al suo coraggio ed alla sua costanza in questa ricerca, che in fondo non è altro che la ricerca di un senso da dare all'esistenza. La conoscenza che egli è in grado di attingere deriva in effetti dalla più elevata tra le diverse facoltà conoscitive, e cioè quella che rappresenta la comprensione immediata del verbo divino nella meditazione.
Lo scrittore di aforismi infine è colui che attraverso le sue “sentenze” ha il potere di giudicare la società in cui vive, e persino la propria epoca. È, come si diceva all'inizio, il Vero, con la vu maiuscola, ad eleggerlo e ad investirlo di tanta autorità, conferendogli una funzione attiva e d’avanguardia.
Perché l'aforisma piuttosto che il romanzo? La ricerca della verità ha bisogno di concetti espressi in modo sintetico ed efficace. L'aforisma è un lampo che bisogna essere preparati a cogliere perché giunge improvviso ed accecante per chi non vi è portato. L'Augenblick, la verità colta in una frazione di secondo, questo è l'aforisma. Ma, oltre al talento che è indispensabile, quanto studio occorre per arrivare a scrivere un' apparentemente semplice "battuta"! La gente non se ne rende conto, occorre farglielo notare.
Le "frasette" sono roba da idioti non da aforisti, signori miei! Ma tant'è, si sa, è più facile giudicare che conoscere. L'impresa donchisciottesca e meritoria del Premio Internazionale "Torino in sintesi"  dedicato all'aforisma, è far sì che finalmente ci si renda conto dell'estrema importanza in letteratura del genere aforistico, data l'esagerata importanza conferita improvvidamente al romanzo, un genere, come insegnava Robert Musil, ormai in decadenza per chi è ancora in grado di comprendere la conoscenza e di amarla. Si può dire che ormai l'aforisma è la via maestra verso la saggezza, quella tanto amata da Seneca per intenderci.

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