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Frasi e citazioni di Franco Volpi

Selezione di frasi e citazioni di Franco Volpi (Vicenza 1952–2009), filosofo italiano. Ha insegnato storia della filosofia presso l'Università di Padova. La maggior parte delle seguenti riflessioni sono tratte dal libro di Franco Volpi Il nichilismo, edito da da Laterza nel 1999.
Foto di Franco Volpi
Il nichilismo non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie intellettuali,
 ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo. (Franco Volpi)

Il nichilismo
© Laterza, 1999 - Selezione Aforismario

L’uomo contemporaneo versa in una situazione di incertezza e di precarietà. La sua condizione è simile a quella di un viandante che per lungo tempo ha camminato su una superficie ghiacciata, ma che con il disgelo avverte che la banchisa si mette in movimento e va spezzandosi in mille lastroni. La superficie dei valori e dei concetti tradizionali è in frantumi e la prosecuzione del cammino risulta difficile.

Il nichilismo è la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al «perché?» e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo.

Chiunque può vedere che il nichilismo non è più soltanto il fosco esperimento di stravaganti avanguardie intellettuali, ma fa parte ormai dell’aria stessa che respiriamo.

Come una prima definizione vorrebbe, in ossequio all’etimologia, il nichilismo – da nihil, niente – è il pensiero ossessionato dal nulla.

Nutriamo nei confronti del nichilismo la stessa convinzione che vale per tutti i veri problemi filosofici: essi non hanno soluzione ma storia.

La nuova cosmologia cambia la situazione spirituale dell’uomo. Nell’universo fisico della cosmologia moderna egli non può più abitare e sentirsi a casa propria come nel cosmo antico e medievale. L’universo è ora percepito come estraneo al suo destino individuale: gli appare come una angusta cella in cui la sua anima si sente prigioniera oppure come una spaesante infinità che lo inquieta.

Quando la trascendenza perde la sua forza vincolante e ammutolisce, l’uomo abbandonato a se stesso reclama la sua libertà. Anzi, non gli resta che prendersela: l’uomo è la libertà stessa poiché ormai non è altro che quello che progetta di essere, e tutto gli è permesso.

Tra i principali fattori di accelerazione del nichilismo, ovvero tra le cause che maggiormente hanno contribuito alla consunzione dei valori e degli ordinamenti tradizionali, non pochi analisti pongono oggi la tecnica.

La tecnica sopperisce al carattere difettoso dell’uomo naturale, risolvendo i problemi che egli deve affrontare per orientarsi con successo nella vita.

La scienza e la tecnica non riconoscono altri limiti se non ciò che è tecnicamente possibile e fattibile, e in questa loro perenne tentazione del possibile sono doppiamente protette: di diritto in virtù del principio della libertà di ricerca, di fatto perché aumentano la nostra libertà individuale e collettiva in una misura impensabile fino a non troppo tempo fa.

L’associazione tra la scienza e il progresso umano non è più così evidente e immediata come prima. Si percepisce che la tecno-scienza nasconde alcune insidie giacché sta diventando sempre più manipolatrice e va a toccare l’essenzialismo e il sostanzialismo della tradizionale visione umanistico-cristiana dell’uomo.

La purezza e la neutralità cognitiva della tecno-scienza non sono più né ovvie né scontate: il pericolo potenziale è avvertito non solo sul piano delle applicazioni, ma già a livello della ricerca di base. Al punto che si solleva la questione se non sia opportuno introdurre moratorie o addirittura vietare determinate ricerche e sperimentazioni, limitando così una delle conquiste fondamentali e imprescindibili della modernità, il principio della libertà di ricerca.

Nessuno mette in dubbio che la crescita dell’impero tecnologico presenti una infinità di aspetti positivi e affascinanti, e apra molte nuove potenzialità. Nello stesso tempo è difficile tacitare le inquietudini e le preoccupazioni circa la minacciosa eventualità che, anziché promuovere la realizzazione dell’uomo, la tecno-scienza finisca per sradicarlo dal suo mondo naturale e culturale, depauperandone le risorse simboliche.

Il processo planetario della razionalizzazione scientifico-tecnica ha portato alla soluzione di intere serie di problemi. Eppure, a fronte dei loro successi, la scienza e la tecnica sono incapaci di produrre esperienze simboliche di senso in cui inscrivere il nostro essere nel mondo e nella storia. Anzi, le trasformazioni che esse hanno prodotto accelerano il disincanto e la crisi dei fondamenti, cioè l’erosione e la dissoluzione dei quadri di riferimento tradizionali.

Scienza e tecnica ci insegnano a fare un’infinità di cose, ma non ci dicono quali è bene fare e quali invece lasciar stare.

L’orizzonte dell’autorappresentazione culturale e filosofica dell’età contemporanea – che la si etichetti come «dopo Nietzsche», «dopo Weber» o «dopo Heidegger» – è un orizzonte segnato dalla convinzione che sia venuta meno ogni capacità di sintesi e che sia ormai vano sperare di dare un nome all’intero. In ogni caso non è la filosofia bensì la tecno-scienza a inventare il futuro.

Ci troviamo oggi in una sorta di «crisi antropologica» in cui difetta un’idea condivisa di umanità, adeguata ai problemi posti dalla tecno-scienza.

La tecno-scienza sta profondamente trasformando l’uomo, in assenza di una guida responsabile ed efficace. L’uomo è più che mai un animale precario.

Il rischio delle numerose filosofie al genitivo che sorgono in quantità: filosofia della medicina, filosofia dello sport, filosofia della moda, filosofia del design, filosofia di questo e di quello – è di ridurre la riflessione filosofica a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio.

Da sempre la filosofia si è contraddistinta come forma eccelsa di pensiero trasversale, capace di inventarsi ragioni per dubitare dell’evidente, di andare alle radici e di mirare all’intero.

Tutti vediamo quanto l’uomo d’oggi sia abile nell’innalzare capannoni industriali, ma incapace di edificare un tempio o una chiesa. Dall’età dell’oro siamo approdati alla civiltà della plastica.

Oggi la tirannia dei valori d’un tempo si è trasformata nell’isostenia e quindi nell’anarchia dei valori.

La dottrina del sospetto e il disincanto del mondo, la fine insomma della ragione ingenua e sentimentale, hanno radicalmente eroso la possibilità di credere in quadri fondativi di tipo teologico, metafisico e perfino antropologico.

Se, come vuole il pensiero debole, si accetta il divenire delle cose con remissività, senza sovrainterpretarlo né trascenderlo, si dissolve allora il nichilismo tetro e nostalgico – che subentra quando si coltivano ancora la memoria e la nostalgia dei valori perduti – e si apre, con Nietzsche, la possibilità di un nichilismo «gaio» che intende essere vicino alla finitudine umana, alle sue gioie e alle sue sofferenze, più di quanto non fosse la metafisica tradizionale.

Il «pensiero debole» è certamente in sintonia con le intenzioni programmatiche della cultura postmoderna. In esso l’analisi della dissoluzione delle categorie tradizionali non si accompagna – come nelle filosofie della crisi primonovecentesche – al sentimento di nostalgia per l’unità e l’intero perduti, ma saluta la diversificazione e la frantumazione, quindi la pluralità e l’instabilità, come aspetti intrinseci del reale da riconoscere nel loro carattere positivo, senza pretendere di ricondurli a unità e a gerarchie forti costruite dall’alto o dall’esterno.

Dal momento che ha avuto sulla nostra epoca una presa tanto tenace, è lecito supporre che il nichilismo rappresenti qualcosa di più che una semplice corrente del pensiero contemporaneo o una cupa avventura delle sue avanguardie intellettuali. Non occorre essere nietzscheani per riconoscere che il suo fantasma si aggira un po’ ovunque nella cultura del nostro tempo.

Il nichilismo – una parola riservata fino a qualche tempo fa a poche élites – è oggi espressione di un profondo malessere della nostra cultura: che si accavalla, sul piano storico-sociale, ai processi di secolarizzazione e di razionalizzazione, quindi di disincanto e di frantumazione della nostra immagine del mondo, e che ha provocato sul piano filosofico, in merito alle visioni del mondo e ai valori ultimi, la corrosione delle fedi e il diffondersi del relativismo e dello scetticismo.

Si sta ripetendo oggi, in misura aggravata in ragione del quadro nichilistico e del carattere planetario e complesso della vita moderna, la crisi che ha solcato altre epoche storiche e che è caratterizzata dal conflitto tra visioni del mondo e sistemi di norme differenti, dalla difficoltà di inquadrare nei paradigmi etici tradizionali azioni e fatti morali di nuovo tipo, dalla concorrenza tra le diverse teorie etiche che genera logomachie senza vincitori né vinti e dà come risultato l’indifferenza, il relativismo e lo scetticismo.

Sono svanite la forza vincolante delle norme morali e la possibilità che esse trovino disponibilità ad essere accettate e applicate.

I riferimenti tradizionali – i miti, gli dèi, le trascendenze, i valori – sono stati erosi dal disincanto del mondo.

La razionalizzazione scientifico-tecnica ha prodotto l’indecidibilità delle scelte ultime sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e l’isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la stessa inutilità delle proibizioni.

Nel mondo governato dalla scienza e dalla tecnica l’efficacia degli imperativi morali sembra pari a quella di freni di bicicletta montati su un jumbo jet.

Sotto la calotta d’acciaio del nichilismo non v’è più virtù o morale possibile.

La scienza e la tecnica – che raccorciano lo spazio e velocizzano il tempo, che alleviano il dolore e allungano la vita, che mobilitano e sfruttano le risorse del pianeta – forniscono una guida assai più efficace e coercitiva dell’agire di quanto non possa fare la morale.

La scienza e la tecnica organizzano la vita sul pianeta con l’ineluttabilità di uno spostamento geologico. Al loro cospetto l’etica e la morale hanno ormai la bellezza di fossili rari.

L’uomo contemporaneo non ha alternative: qualsiasi cosa pensi o faccia, è già comunque sottomesso alla coercizione della «tecno-scienza». Ciò nonostante egli si culla ancora nell’attitudine edificante dell’umanesimo tradizionale e dei suoi ideali, che appaiono però impotenti rispetto alla realtà della tecno-scienza e che producono, tutt’al più, un’evasione e una compensazione.

Il nichilismo ci ha trasmesso effettivamente un insegnamento corrosivo e inquietante, ma al tempo stesso profondo e coerente. Ci ha insegnato che noi non abbiamo più una prospettiva privilegiata – non la religione né il mito, non l’arte né la metafisica, non la politica né la morale e nemmeno la scienza – in grado di parlare per tutte le altre, che non disponiamo più di un punto archimedeo facendo leva sul quale potremmo di nuovo dare un nome all’intero.

Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare.

Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del divenire, nella transizione da una cultura all’altra, nella negoziazione tra un gruppo di interessi e un altro.

Dopo la caduta delle trascendenze e l’entrata nel mondo moderno della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo, il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione ideologica e morale dei nostri comportamenti.

La nostra è una filosofia di Penelope che disfa (analýei) incessantemente la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.

I filosofi e la vita
(con A. Gnoli © Bompiani, 2010

Ci sono libri che estendono il loro dominio, si direbbe la loro volontà di potenza, oltre la linea d’ombra che la mente di un lettore può tracciare. Libri assoluti e improvvisi che sembrano arrivati dal nulla.

Qualcuno scrive, ma vi è indotto da che cosa? Può darsi che lo scrivere sia una fuga dal nulla. Un’oscurità che si squarcia retrospettivamente.

A volte ci fa orrore ciò che oscuramente viviamo e pensiamo. Senza sdegno né enfasi qualcuno prova a descriverlo.

Frasi da articoli vari
Selezione Aforismario

La filosofia, più che la costruzione di un sistema, è un inventario di pensieri nel flusso della vita, tali da contraddirsi l'un l'altro senza annullarsi. 

Povero Nietzsche! È stato l'unico filosofo a cui è toccato il singolare privilegio di essere considerato responsabile niente meno che di una guerra mondiale.

Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la forza dei Vangeli svanisce e la condizione dell' uomo occidentale è sempre più paganizzata.

Attaccata alle proprie tradizioni come una cozza al suo scoglio, la filosofia continentale ha mostrato finora scarsa propensione al rinnovamento. Sta iscritto nel suo codice genetico storicista. 

Sappiamo quanto il gioco, con la spettacolarizzazione, l' indotto sociale e gli interessi che muove, sia funzionale a quella che Foucault ha chiamato la governamentalità: un potere che si impone non dominando, ma concedendo e seducendo. Il gioco è il suo meraviglioso cavallo di Troia.

Se l'arte è la creazione che accade quando demoni o dèi si impossessano di una carne mortale e macchiano la storia con il suo sangue, vien fatto di domandare: l' arte è più vicina all'inferno o al paradiso?

Al pari dei fatti e degli eventi, anche le idee filosofiche hanno bisogno dello storico per diventare interessanti. Qualsiasi idea, come qualsiasi fatto, senza un' immaginazione che la accenda, senza chi sappia raccontarla, sprofonda nella banalità. 

Lo storico della filosofia non è colui che semplicemente conserva nel tempo un' opera, un pensiero, un concetto. Non è un imbalsamatore di idee. Il vero storico della filosofia è colui che è capace di lasciare tracce nelle opere che legge e nei concetti che tocca.

Se vuole essere "il proprio tempo colto in pensieri", la filosofia deve uscire dall'isolamento accademico in cui si è rinchiusa, e misurarsi con "ciò che è". Non nel senso di arrampicarsi lungo i sentieri ormai interrotti dell'Essere, ma per rischiare un'"ontologia del presente", come sosteneva Foucault.

Ci sono filosofie di cui si può dire che sono o vere o false. Altre invece non sono né vere né false, ma o vive o morte.

In origine la filosofia non era solo la costruzione di un edificio teorico, bensì una scelta di vita, una comprensione "pratica" dell' esistenza capace di darle forma e orientarla.

Ci sono a volte scrittori solitari che spuntano imprevedibili, senza essere annunciati da niente e da nessuno. Che sembrano provenire dal nulla. Eccentrici, irregolari, scomodi, essi risultano inclassificabili, e per questo inconfondibili e inimitabili.

Scomparsa, o quasi, la grande filosofia dei maîtres-à-penser, la filosofia al nominativo, la nostra è un' epoca di filosofie al genitivo. Voglio dire: il pensiero filosofico contemporaneo assomiglia sempre più a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle sue eminenti questioni verso regioni circoscritte o problemi particolari, in cui esso possa dire ancora la sua.

Che la «filo-sofia» sia «amore della sapienza», cioè aspirazione al sommo sapere ma non ancora suo possesso, e che dunque si intrecci in modo essenziale con il non sapere, con il riconoscimento del limite, è stato Socrate ad affermarlo una volta per tutte: «So di non sapere». è il celebre paradosso con cui si presentava da filosofo agli ateniesi.

Prima che a scrivere imparate a pensare! Ecco la regola aurea che vien fatto di raccomandare a chiunque scriva di filosofia: se tieni il pensiero, le parole seguiranno da sé.

Lo scrittore che non tortura le proprie frasi finisce per torturare il lettore.

L'arte del pensare per aforismi è una pianta rara, ma è tra quelle che più vivacizzano e ristorano il petroso scenario della filosofia contemporanea. Spunta a fatica perché richiede in pari tempo genialità e disciplina, intuizione ed esercizio, idee e stile, insomma: combinazioni improbabili e scarseggianti in tempi di povertà.

Suicidio ed eutanasia restano, anche nelle moderne società libere, esperienze che suscitano scandalo. Ma quali argomentazioni razionali possono valere per vietare o limitare il diritto di morire? Se l' individuo ha la facoltà di autodeterminarsi e di ricercare da sé la propria felicità, come può essergli negato il diritto di decidere in merito alla sua vita stessa? Perché imporgli di vivere anche quando lo rifiuta? Perché non ammettere che il diritto alla vita, ovunque riconosciuto come fondamentale e inalienabile, implica come suo corrispettivo il "diritto alla morte"?

Note
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