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Frasi e citazioni di Natalia Ginzburg

Selezione delle frasi più belle e delle citazioni più significative di Natalia Ginzburg, nata Levi (Palermo, 1916 – Roma, 1991), scrittrice, drammaturga, traduttrice e politica italiana.

"Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere, mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene. [...] Quando scrivo delle storie sono come uno che è in patria, sulle strade che conosce dall’infanzia e fra le mura e gli alberi che sono suoi. Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere, e io lo farò fino alla morte". [Le piccole virtù, 1962].

La maggior parte delle seguenti citazioni sono tratte dai libri di Natalia Ginzburg: Le piccole virtù (1962), Lessico famigliare (1963), Mai devi domandarmi (1970). Caro Michele (1973) e Vita immaginaria (1974).
Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna
scegliere di non essere diabolicamente infelici.
(Natalia Ginzburg)
È stato così
Einaudi, 1947

Io non ero mai stata capace di vivere e adesso certo era troppo tardi per imparare, pensavo che nella mia vita non avevo mai fatto altro che guardare fisso fisso nel pozzo buio che avevo dentro di me.

A una ragazza le fa tanto piacere pensare che forse un uomo è innamorato di lei, e allora anche se non è innamorata è un po' come se lo fosse e diventa molto più carina con gli occhi che splendono e il passo leggero e la voce più leggera e più dolce.

Discorso sulle donne
Mercurio, 1948

Le donne non sono poi tanto peggio degli uomini e possono fare anche loro qualcosa di buono se ci si mettono, se la società le aiuta

Le donne hanno la cattiva abitudine di cascare ogni tanto in un pozzo, di lasciarsi prendere da una tremenda malinconia e affogarci dentro, e annaspare per tornare a galla: questo è il vero guaio delle donne. Le donne spesso si vergognano d'avere questo guaio, e fingono di non avere guai e di essere energiche e libere, e camminano a passi fermi per le strade con grandi cappelli e bei vestiti e bocche dipinte e un'aria volitiva e sprezzante.

A me non è mai successo d'incontrare una donna senza scoprire dopo un poco in lei qualcosa di dolente e di pietoso che non c'è negli uomini, un continuo pericolo di cascare in un gran pozzo oscuro, qualcosa che proviene proprio dal temperamento femminile e forse da una secolare tradizione di soggezione e di schiavitù e che non sarà tanto facile vincere.

Le donne pensano molto a loro stesse e ci pensano in un modo doloroso e febbrile che è sconosciuto a un uomo. È mollo difficile che riescano a identificarsi col lavoro che fanno, è difficile che riescano ad affiorare da quelle acque buie e dolorose della loro malinconia e dimenticarsi di se stesse.

Le donne sono una stirpe disgraziata e infelice con tanti secoli di schiavitù sulle spalle e quello che devono fare è difendersi con le unghie e coi denti dalla loro malsana abitudine di cascare nel pozzo ogni tanto, perché un essere libero non casca quasi mai nel pozzo e non pensa così sempre a se stesso ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di sé stesso soltanto per sforzarsi di essere ogni giorno più libero.

Tutti i nostri ieri
Einaudi, 1952

Se c'è Dio non importa pregarlo, è Dio e capisce da sé cosa bisogna fare.

Le piccole virtù
Einaudi, 1962 - Selezione Aforismario

Avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.

C’è una certa monotona uniformità nei destini degli uomini. Le nostre esistenze si svolgono secondo leggi antiche ed immutabili, secondo una loro cadenza uniforme ed antica.

I sogni non si avverano mai e non appena li vediamo spezzati, comprendiamo a un tratto che le gioie maggiori della nostra vita sono fuori della realtà. Non appena li vediamo spezzati, ci struggiamo di nostalgia per il tempo che fervevano in noi. La nostra sorte trascorre in questa vicenda di speranze e di nostalgie.

Io non ho saputo farmi una cultura di nulla, nemmeno delle cose che ho più amato nella mia vita: esse sono rimaste in me come immagini sparse, alimentando sì la mia vita di memorie e di commozione ma senza colmare il vuoto, il deserto della mia cultura.

Provo curiosità di poche, pochissime cose; e quando le ho conosciute, ne conservo qualche sparsa immagine, la cadenza d’una frase o d’una parola. Ma il mio universo, dove affiorano tali cadenze ed immagini, isolate l’una dall’altra e non legate da alcuna trama se non segreta, a me stessa ignota e invisibile, è arido e malinconico.

Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica più.

Non c’è pace per il figlio dell’uomo. Le volpi e i lupi hanno le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo.

Ciascuno di noi una volta nella sua vita si è illuso di potersi addormentare su qualche cosa, impadronirsi di una certezza qualunque, di una fede qualunque e riposarsi le membra. Ma tutte le certezze di allora ci sono state strappate e la fede non è mai qualcosa dove si possa infine prender sonno.

Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio così alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela così con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi.

La bellezza poetica è un insieme di crudeltà, di superbia, d’ironia, di tenerezza carnale, di fantasia e di memoria, di chiarezza e d’oscurità e se non riusciamo a ottenere tutto questo insieme, il nostro risultato è povero, precario e scarsamente vitale.

Esistono due specie di silenzio: il silenzio con sé stessi e il silenzio con gli altri. L'una e 1'altra forma ci fanno ugualmente soffrire.

E ci sono poi tutte le cose che si fanno per non dover parlare: alcuni passano le serate addormentati in una sala di proiezioni, con al fianco la donna alla quale, cosi, non sono tenuti a dover parlare; alcuni imparano a giocare a bridge; alcuni fanno l'amore, che si può fare anche senza parole. Di solito si dice che queste cose si fanno per ingannare il tempo: in verità si fanno per ingannare il silenzio. 

Mai come oggi, le sorti degli uomini sono state tanto strettamente connesse l’una all’altra, così che il disastro di uno è il disastro di tutti.

Non ci è dato scegliere se essere felici o infelici. Ma bisogna scegliere di non essere diabolicamente infelici.

Ama il prossimo tuo come te stesso, ha detto Dio. A noi questo sembra assurdo: Dio ha detto una cosa assurda, ha imposto agli uomini una cosa che è impossibile attuare. Come amare il nostro prossimo, che ci disprezza e non si lascia amare?

Abbiamo creduto in Dio da bambini, ma adesso ci diciamo che forse non esiste: oppure esiste e non gliene importa niente di noi, perché ci ha messo in questa situazione crudele: e allora è come se non esistesse per noi.

Con meraviglia, ci accorgiamo che adulti non abbiamo perduto la nostra antica timidezza di fronte al prossimo: la vita non ci ha per niente aiutato a liberarci della timidezza. Siamo ancora timidi. Soltanto, non ce ne importa: ci sembra d’esserci conquistato il diritto d’essere timidi: siamo timidi senza timidezza: arditamente timidi.

I sacrifici non hanno alcun premio, e le cattive azioni non sono punite, ma anzi a volte lautamente retribuite in successo e denaro.

L'Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa. È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l'incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l'intelligenza, come un vivido sangue.

Una vocazione è l’unica vera salute e ricchezza dell’uomo.

Per quanto riguarda l'educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l'indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l'astuzia, ma la schiettezza e l'amore alla verità; non la diplomazia, ma l'amore al prossimo e l'abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere. Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo.

L’educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri.

Le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell’aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell’educazione. 

Oggi che il dialogo è diventato possibile fra genitori e figli - possibile benché sempre difficile, sempre carico di prevenzioni reciproche, di reciproche timidezze e inibizioni - è necessario che noi ci riveliamo, in questo dialogo, quali siamo: imperfetti; fiduciosi che loro, i nostri figli, non ci rassomiglino, che siano più forti e migliori di noi.

Quello che deve starci a cuore, nell’educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l’amore alla vita.

Lessico famigliare
Einaudi, 1963

Vivevano così, in stretta amicizia, dividendosi il poco che avevano, e senza appoggiarsi a nessun gruppo, senza fare progetti per il futuro, perché non c’era nessun futuro possibile; probabilmente sarebbe scoppiata la guerra, e l’avrebbero vinta gli stupidi; perché gli stupidi, Mario diceva, vincevano sempre.

Le poesie erano dunque così: semplici, fatte di niente; fatte delle cose che si guardavano.

– Voialtri, – diceva mio padre, – vi annoiate, perché non avete vita interiore.

Il fascismo non aveva l’aria di finire presto. Anzi non aveva l’aria di finire mai.

La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l'era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c'era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c'era. In Italia fu così la guerra.

Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità.

Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s'erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. 

La realtà si rivelò complessa e segreta, indecifrabile e oscura non meno che il mondo dei sogni; e si rivelò ancora situata di là dal vetro, e l’illusione di aver spezzato quel vetro si rivelò effimera.

L’errore comune era sempre credere che tutto si potesse trasformare in poesia e parole. Ne conseguì un disgusto di poesia e parole, così forte che incluse anche la vera poesia e le vere parole, per cui alla fine ognuno tacque, impietrito di noia e di nausea.

Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione.

Non volle mai sposarsi, perché mai un uomo le parve coincidere con l’ideale d’uomo che lei aveva e conservava nel tempo, un uomo che non sapeva descrivere, ma i cui connotati erano, nella sua immaginazione, inconfondibili.

La quotidiana solitudine, che è l’unico mezzo che noi abbiamo di partecipare alla vita del prossimo, perduto e stretto in una solitudine uguale.

Mai devi domandarmi
Garzanti, 1970 - Selezione Aforismario

È estinta o si sta estinguendo la stirpe dei padri. Da tempo orfani, noi generiamo degli orfani, essendo stati incapaci di diventare noi stessi dei padri.

Essere capiti vuol dire essere presi e accettati per quello che siamo.

Il nostro malcostume ci porta a chiedere all'amicizia, o anche a un semplice sorriso di cortesia, non già il vero ma un nostro immediato vantaggio. 

Ogni passione amorosa è imperfetta se non la illumina lo sguardo ilare, acuto e penetrante della conoscenza.

La vecchiaia s'annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia intorno come la seppia propaga l'inchiostro.

La vecchiaia vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo più di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto.

Ogni essere ha la fortuna che il suo spirito chiede.

Conserviamo a lungo ancora l'abitudine a crederci «i giovani» del nostro tempo: così che quando sentiamo parlare di «giovani» voltiamo la testa come se si parlasse di noi: abitudine che ha radici così profonde, che forse non la perderemo se non quando saremo del tutto diventati pietre, cioè alla vigilia della morte.

In giovinezza ci era stato parlato della saggezza e della serenità dei vecchi. Noi però sentiamo che non riusciremo a essere né saggi, né sereni: e d'altronde non abbiamo mai amato la serenità e la saggezza, e abbiamo invece sempre amato la sete e la febbre, le inquiete ricerche e gli errori.

Mai ci sogneremmo di scriver versi tutta la vita senza stamparli. Siamo così ansiosi di stampare ogni cosa che scriviamo. Non per amore di gloria; ma sempre per la segreta speranza che qualcuno, il nostro interlocutore ideale, dalle profondità dell'universo raccolga le nostre voci e ci risponda.

Per non so quale malinteso è nata l'idea che la noia sia in qualche modo necessaria, doverosa e indissolubilmente legata alle più alte attività dello spirito.

La nostra presente società umana è stranamente soggetta ai contagi, le idee vere e le idee false si diffondono e si confondono sopra di noi come le nuvole, mescolandosi a incubi e spettri collettivi per cui non sappiamo più distinguere il falso dal vero. 

I romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l'amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo. I romanzi veri hanno il potere di spazzare via da noi la viltà, il torpore e la sottomissione alle idee collettive, ai contagi e agli incubi che respiriamo nell'aria. I romanzi veri hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero.

Una cosa che penso non debba mai fare chi scrive, è dolersi fuor di misura per le critiche negative o per il silenzio che ricadono sulla sua opera. L'attribuire una smisurata ed essenziale importanza all'esito della nostra opera, rivela in noi, per l'opera stessa, una mancanza d'amore. Se l'abbiamo amata veramente e l'amiamo, sappiamo che ciò che le accade, il suo corso e la sua sorte, l'incomprensione che potrà incontrare o il favore, non hanno che una importanza effimera, come contano poco per un fiume o una nuvola i paesi e gli alberi che trova sul suo passaggio.

Chi scrive non ha diritto di chiedere, per la sua opera, nulla a nessuno. Quando ha sollecitato l'editore perché gli paghi ciò che gli è dovuto, esigenza legittima e indispensabile, non gli restano altri compiti pratici nei riguardi dei suoi libri.

Ai libri che abbiamo amato nell'infanzia, restiamo in qualche modo fedeli, nell'affetto, per tutta la vita.

Poesia. Una simile parola, negletta, schernita e umiliata, appare oggi così antica e intrisa di vecchie lagrime e polvere, quasi fosse lo spettro stesso dell'inutilità, che uno si vergogna perfino di pronunciarla.

Il pensiero solitario non appare se non come un malinconico e sterile frutto di solitudine e di fatica; e due cose sono oggi con prepotenza odiate e ripudiate, la fatica e la solitudine.

I romanzi e i versi aridi e confusi che oggi vengono scritti, dicono chiaro come non sia stata spesa per scriverli un'ombra di fatica reale, e chi li ha scritti si è limitato a specchiarsi nella sua aridità e confusione.

Portando così di peso nell'arte la realtà più transitoria e più vile, l'uomo di oggi intende esprimere il vuoto e la sfiducia che lo circonda, vuoto da cui non trae che una scopa, una palla di vetro o una macchia di vernice; ma esprime anche la sua volontà di risparmiare a se stesso il sangue, il travaglio, lo strazio e la solitudine della creazione.

Fatica e solitudine appaiono come i più temibili nemici del vivere, perché l'umanità intiera è oppressa da fatica e solitudine.

Penso che uno che non crede in Dio, non ha però il diritto di dire al suo bambino: «Dio non esiste.» Non può mettergli davanti questa sua convinzione personale come universale certezza. Lo può fare con altre sue convinzioni: ma con questa no.

Abbiamo oggi scoperto che ai bambini non bisogna mentire. È vero. Ma su Dio, chi non crede deve mentire con un bambino: cioè deve avanzare dei dubbi, anche quando non ha nessuna sorta di dubbio dentro di sé.

Un mondo in cui non c'è Dio, e in cui la morte è un punto in un cimitero dove si scende a dormire per sempre, è esattamente il contrario di tutto quello che un bambino ama e vuole.

Il fatto che ad alcune persone il mondo senza Dio sembri atroce, in qualche momento mi sembra una prova che esiste Dio.

Il credere di chi crede è così dubbioso e vacillante, sempre così vicino a spegnersi, che non consola affatto, e rischiara assai poco.

Il credere di chi crede è un credere così incredulo, che rassomiglia straordinariamente al non credere.

Nella nostra memoria, i giorni felici e gli affetti che abbiamo perduto vivono mescolati a rimpianto e dolore e strazio cosi che a volte non ci sembra possibile chiamarli ancora felici: e tuttavia il loro vivere in noi rende stranamente allegre e luminose le nostre presenti giornate deserte e miserabili.

Chi scrive, sente con forza la necessità di avere degli interlocutori. Di avere cioè al mondo tre o quattro persone, a cui sottoporre ciò che scrive e pensa e parlarne. Non gliene occorrono molte: bastano tre o quattro. Il pubblico è, per chi scrive, una proliferazione e una proiezione di queste tre o quattro persone nell'ignoto e nell'infinito.

Caro Michele
Mondadori, 1973

Ti auguro ogni bene possibile, e spero che tu sia felice, ammesso che la felicità esista. Io non credo che esista, ma gli altri lo credono, e non è detto che non abbiano ragione gli altri.

Non c'è niente di peggio della timidezza fra due persone che si sono detestate. Non riescono a dirsi più niente. Sono grate una all'altra di non ferire e non graffiare, ma una simile specie di gratitudine non trova la strada delle parole.

Si sta bene con gli sconosciuti quando si è depressi. Almeno si possono raccontare bugie.

Ho scoperto che la gente a conoscerla un poco poi fa pena. Per questo si sta così bene con gli sconosciuti. Perché non è ancora cominciato il momento in cui fanno pena e si odiano. 

Non si amano soltanto le memorie felici. A un certo punto della vita, ci si accorge che si amano le memorie.

A un certo punto della nostra vita i rimorsi li inzuppiamo nel caffè la mattina come biscotti.

Non è che i soldi ti risolvano niente essendo tu sola, sbandata, vagabonda e balorda. Ma ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine.

Vita immaginaria
Mondadori, 1974 - Selezione Aforismario

In assenza della felicità, ognuno cerca intorno a sé qualcosa che sostituisca la felicità nel suo spirito.

Essendo la felicità ovunque assente, l’unico bene che uno può chiedere a se stesso è una consapevolezza del proprio stato, adulta e senza illusioni.

C'è stato un momento nella nostra esistenza, in cui abbiamo capito che non saremmo stati mai più felici, che il nostro destino poteva portarci tutto ma non più la felicità. Un simile momento segna nella nostra esistenza una linea di demarcazione, un solco nero e profondo.

Da vecchi abbiamo paura di dimenticare come era fatto l'amore. Ricordiamo che poteva essere in due modi. Poteva essere improvviso e incendiare il mondo. Oppure poteva essere inavvertibile e del colore dell'aria. L'amore assomigliava all'aria o al fuoco.

Impossibile accendere le luci essendosi rotti i fili, impossibile alzare un palcoscenico nei nostri teatri devastati. Noi pensiamo che questa è la vecchiaia. Fare il gesto di accendere la luce e rimanere al buio.

La soddisfazione è un sentimento di natura tiepida, e di qualità inferiore. È un sentimento incompatibile con la poesia. La poesia nasce soltanto da sentimenti non tiepidi, e di qualità appassionata. Nasce dal dolore, o dalla collera, o dall’inquietudine, o infine dalla felicità. Nasce dai desideri inappagati, perché, nei suoi desideri inappagati, l’uomo vede riflessa la condizione umana. Ma dalla soddisfazione, la poesia non nasce mai. 

Note
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