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Frasi e citazioni di Gustavo Zagrebelsky

Selezione di frasi e citazioni di Gustavo Zagrebelsky (1943), giurista italiano tra i più noti e influenti:
"Noi giuristi, nell’opinione comune, siamo temuti e disprezzati al tempo stesso. La Bibbia racconta i contrasti tra i Re e i Giudici, con i profeti di mezzo. [...] Ci sono conflitti ad alta intensità, e altri a bassa intensità in cui noi giuristi siamo simpaticamente canzonati per le astruserie di cui siamo autori, magari per farci belli. Potendo, dei giuristi, si farebbe a meno. Invece, sono dappertutto. Non c’è questione, grande o piccola, privata o pubblica; non c’è discussione sui minimi o i massimi problemi come quelli che riguardano beghe da cortile o quelli che hanno in gioco la vita o la morte, dove non si affaccino i giuristi di propria iniziativa oppure chiamati in causa. Viviamo come non mai in un’epoca giuridica. Tuttavia – ammettiamolo – a onta della nostra ubiquità e pervasività, o proprio per ciò, non godiamo di buona reputazione; di quella reputazione che ci aspetteremmo se il pubblico profano condividesse i pensieri che coltiviamo su noi stessi e sfoggiamo con ostentazione: incorruttibilità, onestà, imparzialità, equilibrio, disinteresse, coscienziosità, saggezza. In una parola: giustizia". [La Giustizia come professione, Einaudi, 2021].
Foto di Gustavo Zagrebelsky
La democrazia, come la concepiamo e la desideriamo, in breve,
è il regime delle possibilità sempre aperte. (Gustavo Zagrebelsky)

Lo Stato e la Chiesa
La biblioteca di Repubblica, 2007

La democrazia è per l'appunto il regime delle possibilità da esplorare, attraverso discussione e confronto e secondo la logica del male minore o del bene maggiore nelle condizioni date.

Contro l'etica della verità
Laterza, 2008

Al di là delle apparenze, il dubbio non è affatto il contrario della verità. In un certo senso, ne è la ri-affermazione. È incontestabile che solo chi crede nella verità può dubitare, anzi: dubitarne.

Il dubbio, al contrario del radicale scetticismo, presuppone l'afferrabilità delle cose umane, ma, insieme, l'insicurezza di averle afferrate veramente, cioè la consapevolezza del carattere necessariamente fallibile o mai completamente perfetto della conoscenza umana, cioè ancora la coscienza che la profondità delle cose, pur se sondabile, è però inesauribile.

La democrazia, come la concepiamo e la desideriamo, in breve, è il regime delle possibilità sempre aperte.

La democrazia non promette nulla a nessuno, ma richiede molto a tutti.

La vita democratica è una continua ricerca e un continuo confronto su ciò che, per il consenso comune che di tempo in tempo viene a determinarsi modificandosi, può essere ritenuto prossimo al bene sociale.

Pensando e ripensando, non trovo altro fondamento della democrazia che questo solo. Solo, ma grande: il rispetto di sé. La democrazia è l'unica forma di reggimento politico che rispetta la mia dignità nella sfera pubblica, mi riconosce capace di discutere e decidere sulla mia esistenza in rapporto con gli altri.

Etica pubblica e convivenza politica sono sotto molti aspetti interdipendenti. Il modo d'intendere la prima si riflette sul modo d'intendere la seconda, e così anche al rovescio.

Ogni Costituzione è l'esito di un "processo di differenziazione". Se non fosse così, non se ne vedrebbe l'utilità. 

Intorno alla legge
Einaudi, 2009

Il maggior errore del giudice è di credersi immune dalla responsabilità del delitto per il quale un altro è condannato; è di credersi membro di una società migliore, di una società di eletti.

La difficile democrazia
Firenze University Press, 2010

Forse a questo, realisticamente, si riduce la democrazia: il lavorio continuo di distruzione delle oligarchie. Costruire la democrazia equivale a distruggere le oligarchie, con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che hanno distrutto la prima. Questa è la “ferrea legge”, ferrea non perché descrive un regime d’immobilità, ma perché indica un ineluttabile movimento.

Sulla lingua del tempo presente
Einaudi, 2010

«Assolutamente». Un avverbio e un aggettivo apparentemente innocenti, da qualche tempo, condiscono i nostri discorsi e in modo così pervasivo che non ce ne accorgiamo «assolutamente» più: per l'appunto, assolutamente e assoluto. Tutto è assolutamente, tutto è assoluto. Facciamoci caso. È perfino superfluo esemplificare: tutto ciò che si fa e si dice è sotto il segno dell'assoluto. Neppure più il «sì» e il «no» si sottraggono alla dittatura dell'assoluto: «assolutamente sì», «assolutamente no».

La felicità della democrazia
(Un dialogo con Ezio Mauro), Laterza, 2011 

Diciamo che siamo in democrazia perché ci sono le elezioni. Ma bastano perché sia una democrazia che ci piace?

La democrazia è l’ideale del nostro tempo. Perfino i dittatori, quando prendono il potere, sciolgono il Parlamento, sospendono i diritti, dicono di farlo per restaurare la «vera democrazia», appena possibile.

Senza adulti
Einaudi, 2016

I figli mansueti, troppo ubbidienti, assuefatti ai modelli paterni e materni, troppo ligi, invece di essere la consolazione di padri e di madri, dovrebbero preoccuparli, perché «esistono», ma non «vivono» la vita loro.

Nei rapporti fra generazioni, il conflitto è fisiologico e l’acquiescenza senza carattere è patologica.

Una vita umana senza curiosità e apprendimento degenera nella noia del mero esistere o del mero accrescersi su se stessi, come fanno i tumori.

Denunciare le semplificazioni significa complicare e la complicazione rende inquieti, affatica, contrappone. Semplificare, invece, tranquillizza ed è riposante. Riposante, sí, ma anche fuorviante e pericoloso. 

Tu non hai l’idea, che è comune; è l’idea comune che ha te, e ti rende insignificante o, meglio, ti fa a tua volta missionario della mediocrità.

Forse è perché la gioventù si conosce solo se la si può mettere a confronto con un’età – la vecchiaia – che i giovani non conoscono ancora, che i vecchi la rimpiangono. I giovani vivono senza la consapevolezza del loro stato. Alla giovinezza si pensa quando non c’è piú, e il ricordo è spesso nostalgico.

L’identità dell’odierna generazione emergente è lo sviluppo e la produttività, anzi la produttività crescente finalizzata allo sviluppo. È una corsa costante che deve almeno stare al passo e, possibilmente, allungarlo rispetto a quanti partecipano alla gara globale. È, altresì, una gara nichilistica, perché la meta, cioè un’idea di società giusta che si possa aspirare a raggiungere, si allontana in misura proporzionale all’accelerazione della corsa di tutti contro tutti. 

Per soddisfare manie di potenza e grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni generazione si è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. 

Occorre riuscire a individuare, nei nostri modi di vita acquisiti, ciò che è mortifero per metterlo a morte e, da lí, liberare le energie del rinnovamento.

Chi promette l’avvento del mondo nuovo come un’allegra avventura in cui spariscono le differenze e i conflitti, semplicemente in nome di un generico ottimismo giovanilistico cui tutti dovrebbero aderire, ma tace sugli inevitabili costi e sacrifici, non sa quello che dice. Oppure, sa che sono adescamenti attraverso dissimulazioni e rinvii senza oggetto, come fanno i malati che non vogliono vedere il male che li consuma e si illudono delle proprie energie. Ecco qui il compito e il programma di qualunque forza che voglia seriamente dirsi politica, cioè che non si faccia semplicemente portare dagli eventi ma pretenda di orientarli.

La Giustizia come professione
Einaudi, 2021

Il timore e il disprezzo della giustizia sono il risultato di valutazioni e giudizi spesso basati su esperienze e traversie personali che finiscono per colpire la categoria dei giuristi nel suo complesso.

I giuristi e, per la loro parte, i politici e i giornalisti coinvolgono singolarmente in ogni loro atto il valore da cui dipende la legittimità della loro professione. Dai giuristi ci si attende «giustizia»; dai politici, «bene comune»; dai giornalisti, «veridicità». 

La «ragion giuridica» è spesso tortuosa perché deve destreggiarsi come il navigante tra gli scogli e, quindi, collide con l’opinione comune che pretende dal diritto e dai giuristi linearità, facile comprensibilità, certezza: pretende cioè che sia “diritto”, nel senso di non zigzagante. Quando non è cosí, è facile sospettare che ci sia qualche perturbazione nel decidere “(di)rittamente”. L’illusione si trasforma facilmente in delusione. 

Il ricorso alla legge e al giudice, «l’andar per avvocati» come siamo abituati a dire e fare a ogni piè sospinto, [...], è il prodotto di una patologia. Mentre la composizione dei conflitti nella dimensione discorsiva porta alla tolleranza e al riconoscimento dei diversi lati dai quali essi possono essere guardati, il ricorso alla legge amplifica l’autoreferenzialità dei soggetti e l’uso aggressivo e vendicativo dello strumentario giudiziario.

La lezione
Einaudi, 2022

Le parole dànno esistenza e stabilità alle cose. Se non si hanno le parole, le cose, di qualunque genere siano, fisiche o metafisiche, materiali o immateriali, non si possono afferrare e trattenere, cioè non possono essere acquisite.

In certo senso, nominando le cose del mondo esteriore le facciamo esistere nel nostro mondo interiore. In questo senso le parole conferiscono esistenza e permettono di pensare il mondo in noi e noi nel mondo. 

Cogito ergo sum, il celebre motto cartesiano, dovrebbe essere completato: verba teneo, ergo cogito. Donde, per proprietà transitiva: verba teneo, ergo sum.

Le parole possono restare le medesime, ma occultare realtà molto diverse. Se ne può fare uso non per chiarire ma, piuttosto, per confondere, simulare o dissimulare e, alla fine, ingannare.

Si può dire che il numero di parole che possediamo corrisponde al numero di «cose» cui possiamo conferire esistenza, che possiamo comprendere e fare nostre e insieme alle quali entriamo in un rapporto vitale. Senza le parole, anche le cose ci sfuggono. E, con esse, ci sfugge una parte essenziale della nostra esistenza.

Chi ha poche parole è povero, è meno vivo di chi ne ha tante, ed è esposto alle prevaricazioni di chi ne ha di piú.

Il mondo cambia e ha continuamente bisogno di nuove parole, parole creative, perché lo si possa portare a vivere per noi e con noi.

Il nostro è un tempo analitico, non sintetico. Ma l’analisi e la sintesi sono ugualmente importanti. L’analisi da sola è un’amputazione; la sintesi da sola è un volo nel vuoto. 

Note
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