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Frasi e citazioni di Tullio De Mauro

Selezione di frasi e citazioni di Tullio De Mauro (Torre Annunziata, 1932 - Roma, 2017), linguista, lessicografo e saggista italiano, ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001.
Questo evanescente oggetto materiale che è la parola ha
i caratteri della banalità quotidiana più trita, ovvia, immediata,
e insieme ci sorprende perché reca in sé
qualcosa di straordinario. (Tullio De Mauro)
Guida all'uso delle parole
Parlare e scrivere semplice e preciso per capire e farsi capire
© Editori riuniti, 1980 - Selezione Aforismario

Del parlare si può fare spesso a meno. Poeti e saggi di varie epoche e paesi hanno lodato il silenzio, e ne hanno scritto veri e propri elogi. E in varie lingue c’è un proverbio simile al nostro che ammonisce: «Il silenzio è d’oro, la parola è d’argento».

Scrivere non è necessario. In qualche modo, se ne può fare a meno ancora oggi, così come se ne è fatto a meno per decine di migliaia di anni, nell’oscuro scorrere della preistoria umana.

Parlare non è necessario. Scrivere lo è ancora meno.

Quello di cui non possiamo fare a meno sono non le parole, ma la comunicazione.

Un comune vocabolario scolastico italiano o francese o inglese, ecc. contiene dalle cinquantamila alle centomila parole diverse. Tutte queste decine di migliaia di parole sono scritte combinando poche decine di lettere: l’alfabeto italiano, per esempio, ha appena ventuno lettere.

La lingua ha una natura creativa. Il suo uso è sempre esposto a innovazioni. Di conseguenza, la diversità nel tempo e nello spazio, la varietà e la variabilità delle lingue sono fatti normali.

Quasi sempre, quando usiamo le parole, lo facciamo in assenza di interlocutori. Questo non vuol dire che siamo poco normali. Tutt’altro. La maggior parte delle volte usiamo le parole per rimuginare tra noi su una situazione, un fatto, un’esperienza. Le parole ci servono per ricordare ed esplorare le caratteristiche di ciò cui stiamo pensando.

Il valore maggiore, nel conversare, è scambiarsi realmente pensieri, sensazioni, esperienze. Dunque, la regola non può essere altro che la spontaneità, con un solo limite: la pazienza dell’interlocutore.

Lasciar parlare gli altri, sapere ascoltare, parlare soltanto quando gli altri hanno finito il loro dire sono buone abitudini senza le quali non si è buoni conversatori.

Non solo il tempo, come dice il vecchio proverbio, ma anche lo spazio è danaro. Ce lo ricordano se non altri l’amministrazione delle poste, che fa pagare i telegrammi a seconda del numero e lunghezza delle parole, e le amministrazioni dei giornali, che fanno pagare pubblicità e annunci economici a seconda dello spazio occupato.

Dobbiamo scrivere e parlare, e possiamo farlo, tanto quanto ci è richiesto dalle condizioni di tempo e di spazio che ci sono assegnate. 

Dobbiamo liberarci dalla falsa idea scolastica, legata soprattutto alla pratica dei componimenti, che ci sia un modo più giusto degli altri nel raccontare un’esperienza, esporre un problema, ecc. Così sarebbe se gli esseri umani fossero automi, se il parlare fosse un calcolo.

Tenere un discorso leggendo un testo scritto prima va per il possibile evitato. In generale è soltanto un modo per annoiare una platea.

Chi scrive per dire qualcosa di utile agli altri, anche a uno solo, si chieda, finita la prima stesura, se le parole e frasi che ha scelto sono le più adatte al destinatario, le più adatte a farlo entrare nel senso che gli si voleva comunicare.

Gli esseri umani sono consegnati a una lingua più che a un’altra, a un argomento più che a un altro. Sono sempre, dunque, in una condizione particolare. E, tuttavia, possiamo scegliere frasi e parole che siano le più appropriate a far comprendere la maggior quantità possibile di ciò che intendiamo dire. Il mestiere di scrivere sta in questo.

La sola regola nel mondo della comunicazione con parole è data dagli altri coi quali comunichiamo. La sola vera regola è verificare la capacità che una parola o una frase ha di trasmettere a interlocutori e riceventi determinati il senso che con essa volevamo trasmettere.

La logica profonda del linguaggio verbale è la logica della cooperazione per intendersi. È ben naturale che la cooperazione debba agire anche sul prodotto finito del processo di produzione di un discorso, sul ‘testo’.

Prima lezione sul linguaggio
© Laterza, 2002 - Selezione Aforismario

Le parole, le frasi, la lingua abitualmente parlata hanno radici profonde nella nostra vita psicologica e nella nostra costituzione fisica. 

Le parole circondano il presente, ogni istante del nostro presente. Ci accompagnano quando parliamo con altri o leggiamo e scriviamo, ma anche nel silenzio e perfino nei sogni. E dal presente più immediato si distendono verso il passato e si protendono verso il futuro, coinvolgendo anche pensieri, volontà e coscienze umane.

Del mare di parole apparse nei testi di una lingua una persona linguisticamente molto colta e di buona memoria serba in mente solo alcune decine di migliaia di parole che, all’occorrenza, sa riconoscere e capire e sa usare sensatamente.

Quasi ogni parola che possiamo ricordare, forse tutte, e certo tutte le più importanti e usuali sono parole che abbiamo udito dai nostri cari, dalle persone con cui siamo venuti in contatto, da ciò che abbiamo udito con qualche attenzione, da ciò che abbiamo letto.

Ogni parola ci lega alla storia.

Questo evanescente oggetto materiale che è la parola ha i caratteri della banalità quotidiana più trita, ovvia, immediata, e insieme ci sorprende perché reca in sé qualcosa di straordinario.

Resta immerso nel buio memoriale della prima infanzia il momento e modo in cui ci siamo appropriati delle prime parole. 

Le parole pervadono la vita degli esseri umani come il vedere e forse anche più, come il respirare.

Nella comune estimazione, nei proverbi, il dire non gode di buona reputazione rispetto al fare. Per correggere la sottovalutazione si potrebbe far ricorso agli alti esempi del dire e dello scrivere, alle ardue opere dell’ingegno umano affidate alla parola parlata o scritta.

La cultura degli italiani
© Laterza, 2004 - Selezione Aforismario

Vi è una massa enorme di popolazione in piena età di lavoro, il 74 per cento, che, pur avendo conquistato elevati titoli di studio, ha difficoltà grandi a capire o scrivere un semplice testo (analfabeti funzionali pari al primo livello) o ci riesce assai male ed è definita con un eufemismo sociologico «a rischio di analfabetismo di ritorno». 

Al primo anno di università per una buona metà ragazze e ragazzi non conoscono le parole indispensabili per comprendere appieno un qualsiasi testo universitario. 

Il 40 per cento dei dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dichiara di non avere letto un libro negli ultimi dodici mesi e non si vergogna neppure della propria condizione di «analfabeta librario».

Come non bisogna disprezzare il ricettario o il romanzo Harmony, nemmeno bisogna disprezzare le testate sportive, che spesso hanno una precisione di informazione come, forse, solo «Il Sole 24 Ore» riesce ad avere.

In tutto il mondo vige una regola che gli studiosi di pedagogia sperimentale chiamano del «meno cinque»: in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell’istruzione scolastica formale.

Come per i computer, anche per altre tecnologie dell’informazione e della comunicazione il livello italiano di conoscenza e uso rimane molto basso. C’è soltanto un’eccezione: i cellulari. 

Il disamore per la tecnologia, le scienze, le tecniche sparisce quando si parla di telefonini. Leggere no, ma chiacchierare al telefono sì.

La prima azione che vorrei suggerire, raccomandata anche dall’Associazione internazionale dei bibliotecari, è creare una biblioteca in ogni comune, come avviene in ogni cittadina francese, spagnola, tedesca, europea.

Le biblioteche rappresentano un potente fattore di crescita della lettura e, quindi, di crescita complessiva del paese.

Se della scuola si parla poco e male, sull’organizzazione della nostra ricerca regna il silenzio. Pagheremo per decenni la lunga politica della lesina e, ora, di progressiva asfissia. 

La pluralità idiomatica non è un accidente stravagante, ma un fatto fisiologico per la specie e le comunità umane e che una cattiva scuola o provvedimenti stolidi possono cercare di soffocare questo fatto, ma non riescono a spegnerlo senza tentare di spegnere l’umanità stessa. 

Il seme della differenza linguistica e culturale è in ciascuno di noi, nelle nostre coscienze e nel nostro cervello. Gli italiani hanno conquistato in questi anni il diritto a parlarsi in un’unica lingua e a conservare anche i propri dialetti.

Note
Leggi anche le citazioni dei linguisti italiani: Gian Luigi Beccaria - Luca SerianniEdoardo Lombardi Vallauri