Frasi e citazioni di Salvatore Natoli

Selezione di frasi e citazioni di Salvatore Natoli (Patti, 1942), filosofo e accademico italiano, a lungo professore ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di scienze della formazione dell'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Le seguenti riflessioni sono tratte dai libri di Salvatore Natoli: L'esperienza del dolore (1986); Dizionario dei vizi e delle virtù (1996); Stare al mondo (2002); L'arte di meditare (2004); L'edificazione di sé (2010); Il fine della politica (2019).
Foto di Salvatore Natoli
È nel cuore della vita che si produce l’esperienza di morte
e la morte che giunge alla fine non è davvero il peggio. (Salvatore Natoli)

L'esperienza del dolore
Le forme del patire nella cultura occidentale © Feltrinelli, 1986

In ogni individuale soffrire c’è un riverbero del dolore universale.

Uno dei tratti dominanti ed insieme più tremendi della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un profondo solco di divisione intorno a chi soffre. In tal modo, il dolore delimita.

Il dolore si conosce per esperienza.

Il dolore rende soli perché l’elemento repellente da un lato restringe la vita, dall’altro allontana chi osserva: in tutto ciò il dolore si fa sempre più intimo alla morte e la raffigura.

Il dolore è ciò che si prova e che mette alla prova.

Dalla tecnica non giunge la salvezza ma almeno è garantito l'aiuto.

Bisogna sottrarsi tanto alla rivincita dei nemici quanto al compianto impotente di coloro che ci amano.

Appartiene al tragico la dimensione dell'ineluttabile e nulla è più ineluttabile che il movimento verso la morte. La morte è il sigillo della necessità impresso su ogni vivente.

I nuovi pagani
© Il saggiatore, 1995

Il cristianesimo ha alterato l'anima pagana. Nel momento in cui il sogno di un mondo senza dolore è apparso, non ci si adatta più a questo dolore anche se si crede che un mondo senza dolore non esisterà mai. La coscienza è stata visitata da un sogno che non si cancella più, e anche se lo crede inverosimile tuttavia vuole che ci sia.

Dizionario dei vizi e delle virtù
© Feltrinelli, 1996 - Selezione Aforismario

L’uomo contemporaneo è decisamente più libero che in passato, ma è anche più solo; appartiene sempre meno a una comunità e tuttavia è ancora richiamato a formarla per non perire.

Il moderno ha sciolto progressivamente i vincoli, ma nel contempo ha creato le grandi masse, ha fatto apparire una folla – come si dice – solitaria, ove ognuno cerca la propria identità.

Se non siamo capaci di legami, siamo già morti mentre viviamo.

Nella società odierna, la morte non è più celebrata: è socialmente non rilevata (i funerali intralcerebbero indubbiamente il traffico) e come tale è pressoché informale o, se formalizzata, lo è nei termini aziendali dell’agenzia mortuaria e in quelli burocratici della procedura.

Nella morte di Dio l’uomo ha creduto di poterne ereditare l’onnipotenza, ma questo è ciò che a tutt’oggi lo mette a rischio di morte. 

Il divino è esperienza dell’assenza, è lo spazio del nostro implacabile domandare, entro cui si dissolve ogni simulacro.

Stare al mondo
Escursioni nel tempo presente © Feltrinelli, 2002 - Selezione Aforismario

La condizione umana s’identifica con lo stare al mondo. E una vita riuscita con il saperci stare.

Non tutti sono attrezzati a vivere come si dovrebbe il presente e i più deboli lo fuggono bruciandosi nell’istante.

La felicità è incontrare il mondo, percepirlo come fonte di corrispondenza e non di resistenza rispetto al nostro desiderio.

In fondo il soffrire è un lusso della vita; si soffre perché si vive, e si soffre molto di più se si ha voglia di vivere, perché si avverte la scissione tra sé e il mondo.

Bisogna sempre aversi a cuore, sempre dobbiamo essere competenti circa quello che possiamo e non possiamo, circa quello che possiamo avere e non possiamo avere, circa il dovere di rinunciare ad alcune cose, perché inseguendole ci indeboliamo, e di sceglierne altre.

Noi siamo una società dell’indifferenza, che al dolore non è attenta. A fronte di quest’apatia verso la sofferenza abbiamo l’epopea del macabro, dello spudorato, i casi televisivi (non è un caso che in una società dell’indifferenza si sviluppi l’epopea del macabro, perché un’umanità cinica ha bisogno comunque di sentirsi buona).

Ognuno di noi nasce per caso, se i nostri genitori avessero fatto l’amore una sera dopo noi non saremmo nati, siamo insomma creature del tutto casuali.

Tu non sei uno scopo, ma hai una potenza sufficiente per darti uno scopo, quindi sei un compito. 

Se si comprende sino in fondo che la sofferenza è un momento ineliminabile dell’esistenza, e che però nonostante questo l’esistenza ha una sua bellezza, riusciamo meglio a diventare responsabili di noi nella sofferenza e dire sì alla vita nonostante tutto.

Vi è libertà se vi è la persuasione che non posso essere autosufficiente e, nello stesso tempo, non posso essere vincolato assolutamente alla volontà di un altro.

Libertà non è assenza di vincoli, ma certamente significa indipendenza dall’altrui volontà.

La sottomissione – questo è importante per la nostra società – non è tanto la sottomissione violenta, la coazione dall’esterno, ma è il divenire schiavi del proprio desiderio. Se sei schiavo del tuo desiderio, avrò buon gioco a sottometterti, potrò ricattarti.

Nessuno ti impone vincoli, ma devi saperteli dare; devi poter selezionare le tue scelte, perché non puoi tutto; vincola il tuo desiderio, per metterti nelle condizioni di un giusto rapporto con gli altri.

Il gesto più alto di amicizia e di amore consiste nel restituire l’altro al suo governo di sé.

L’uomo riuscito è colui che vince il dolore, che attraverso il lavoro della sofferenza diventa aureo.

Esiste un drogaggio della società, dove i soggetti non sono amministratori della propria libertà. Si sentono liberi non perché governano il limite, ma perché ritengono di potere fare tutto. L’efficienza, il lavorare “venticinque” ore al giorno, l’ideale della crescita, questa è una droga quotidiana. Bisogna stare a questo ritmo, altrimenti sei un drop out. Ma per cosa tutto questo?

Nelle nostre società la maternità – e più in generale la genitorialità – è divenuta difficile non solo per ragioni pratiche, o di vita quotidiana, ma per l’emergere sempre più prepotente della soggettività che pretende un’incondizionata libertà. Oggi non si è facilmente disposti a contrarre legami stabili. 

L’amore vero è virtù che dona: in quanto capacità di dare vita, è simbolicamente materno, ma è pervasivo.

La civiltà contemporanea sotto il velo delle molteplici attività, dei più svariati interessi è incapace di generare intimità, rende sempre più difficile stipulare alleanze stabili, coltivare lunghe fedeltà. Di qui inevitabili solitudini.

È nel cuore della vita che si produce l’esperienza di morte e la morte che giunge alla fine non è davvero il peggio. 

Il dolore non ha, e probabilmente non avrà mai, una ragione che lo giustifichi. Diventa però occasione per darsele, le ragioni, e per cercarle.

Del dolore non si sente più lo scandalo. Lo si tacita rendendolo spiegabile o improbabile. Per aggirare il tremendo della sofferenza la “sociologizziamo”, la “psicologizziamo”, oppure – al peggio non c’è mai fine – la allontaniamo da noi “spettacolarizzandola”.

Apprendere a morire fa parte del ben vivere. Certo rubando al tempo – e fino in fondo – le sue gioie. A questo siamo chiamati. È il modo migliore per portare a compimento la vita.

La fede si inscrive sempre meno in una logica di verità e si specifica sempre di più come adesione a un’offerta di salvezza.

Il male ha da sempre tenuto in scacco Dio, ha fatto fallire le teodicee, ha incrinato la sua stessa credibilità. Se c’è il male, o Dio è impotente o è connivente: non c’è, dunque, alcun Dio perché più debole del male o, peggio, male egli stesso.

Una promessa non è né vera né falsa, ma solo suscettibile di adempimento o meno. E dal momento che Dio alle sue promesse non ha dato scadenze, esse restano stranamente credibili per quanto inevase.

La società contemporanea è divenuta incredula senza saperlo, ed è divenuta tale perché non è più capace di nutrire speranze assolute.

I media hanno reso impossibile il silenzio.

La politica ha oggi perso, e forse definitivamente, l’aura del mito, e non è un male; le capita, però, di assumere, e con una certa disinvoltura, i tratti e le caratteristiche del divismo.

I caratteri distintivi della politica restano la giustizia e il servizio. Se questi vengono meno non finisce la politica, si riapre semplicemente la guerra.

Una democrazia funzionante è fatta di cittadini e non di capi, e le buone democrazie – lo si sa – sono politicamente grigie.

In democrazia è impossibile scegliere il meglio: i cittadini non ne hanno la competenza e quand’anche l’avessero non possiedono singolarmente le informazioni sufficienti per procedere a un adeguato confronto. 

Il compito delle democrazie è quello di garantire le libertà, non quello di selezionare la qualità. Quando questo accade, accade per altre vie e non sempre democratiche.

Oggi, a modernità conclusa, resta un’ultima dea: la tecnica.

La tecnica è per eccellenza innovazione e perciò novità. Il consumare e il distruggere diventano, allora, la conditio sine qua non del produrre. In questo quadro tutto quel che esiste non ha motivo d’essere preservato, non è addirittura più degno di durare.

La natura si inscrive sempre più nelle decisioni dell’uomo e non la decisione umana nei fatti della natura.

L’uomo contemporaneo, come già quell’antico, sa che non c’è mai sicurezza assoluta. Ma sa anche che il non far niente non esonera affatto dai rischi. Caso mai il non prendere decisioni è quanto vi può essere di più azzardato e rischioso.

L'arte di meditare
Parole della filosofia, 2004 © Feltrinelli, 2004 - Selezione Aforismario

La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l’ha preparata: in essa, poi, le parole sono maturate come frutti, si sono fissate in idee, si sono trasformate in concetti.

Oggi non esiste più alcun divieto di parola, tutti parlano, anche se spesso finiscono per dire le medesime cose. Ma quanti danno peso a quel che dicono?

Ci sono attimi che rendono nuovo il mondo non tanto perché aggiungono qualcosa di nuovo rispetto a quel che c’è, ma perché sprofondano tutto quel che c’è nel senza fondo dell’origine.

Ogni scienza, per statuto, tende a ridurre l’ignoranza nell’ambito in cui opera. E progredisce. Quel che, al contrario, la filosofia fin dalla sue origini sa – questo è il suo proprio sapere – è che non potrà mai attingere quel a cui aspira: la pienezza della sapienza.

Philo-sophoi: non sapienti, ma amici della sapienza, sapienti perché consapevoli dell’umana indigenza.

La sapienza è inattingibile, le scienze imperfette, l’inadeguatezza umana alla verità e le verità incomplete di ogni scienza riconsegnano gli uomini per intero alla loro finitezza. Né sapienti dunque, né ignoranti, ma semplicemente amici della sapienza e quindi di necessità filosofi.

L'edificazione di sé
Istruzioni sulla vita interiore © Laterza, 2010 - Selezione Aforismario

Siamo, come disse il saggio Sileno dell’antica leggenda, figli del caso e della pena. Tocca a noi trasformare il caso in destino.

Uomo di carattere è chi sa fronteggiare il destino.

Dobbiamo apprendere a padroneggiare la vita e, più esattamente, a divenire padroni di noi stessi. Ma cosa vuol dire in concreto padroneggiare la vita? Vuol dire scoprire quel che siamo e realizzare ciò che possiamo.

La vita è preziosa proprio perché precaria e tanto basta per capire che per ben viverla è necessario prendersela in custodia, averne cura.

La vita diventa nostra se siamo capaci di trasformare la durata in vita piena, se riusciamo in qualche modo a inventarcela.

Inventarsi la vita vuol dire valorizzarla per il tempo a noi assegnato e poi cederla, consegnarla ad altri.

La fiducia nella società in cui viviamo è ormai divenuta rara o, quanto meno, si ha difficoltà a concederla. Ciò accade perché le relazioni con gli altri, i rapporti umani e perfino personali e intimi sono sempre meno improntati alla trasparenza e molto di più all’utilità.

Il denaro è divenuto mediatore universale di ogni desiderio, tanto che si ritiene che non vi sia desiderio che non si possa soddisfare per suo tramite.

A questo stadio della civiltà, per evitare d'essere manipolati e insieme scissi, eterodiretti e serializzati, è necessario un ripiegamento su di sé, è necessario costituirsi come nuclei di resistenza e centri di forza. Per affermarsi è necessario consolidarsi, preservare la propria forma, darsi uno stile.

Noi uomini, in quanto entità singolari, siamo potenze finite e per valorizzare al meglio la potenza che siamo dobbiamo saperla amministrare, divenirne padroni. Questo e non altro significa appropriarsi della vita. 

Nessuno ha mai previamente ragione, ed è perciò una necessità cognitiva e un obbligo morale sottoporre quel che si pensa alla verità e al giudizio degli altri.

Se riprendere gli amici è un dovere, è indice di molta saggezza prendere sul serio le critiche dei nemici.

Le virtù vengono perdendo i tratti dell'abnegazione per assumere quelli della capacità di autorealizzazione. E, come già per gli antichi, la felicità lungi dall'essere concepita come premio della virtù tende a coincidere con il suo esercizio.

Essere virtuosi vuol dire mettersi nelle condizioni di decidere e quindi di non cedere facilmente ai condizionamenti esterni. Come si vede, la virtù non ha niente a che fare con la rinuncia al desiderio, ma piuttosto con il suo governo, onde evitare la dipendenza.

Il bene non può mai essere imposto: va continuamente ricercato e ogni volta scelto.

I processi di emancipazione hanno indubbiamente dilatato gli spazi di autonomia e di scelta, ma hanno anche instillato una pretesa di libertà incondizionata senza che se ne sia neppure all'altezza.

L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma è reciprocità e perciò confidenza e fiducia. Ma per amare così è necessario contenere la prepotenza, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento.

Il fine della politica
Dalla «teologia del regno» al «governo della contingenza»
© Boringhieri, 2019 - Selezione Aforismario

Nel mondo contemporaneo è tramontata la “stella della redenzione”, ma ciò non vuol dire sia venuto meno il bisogno di salvezza, che può sussistere indipendentemente da questa.

Il bisogno di salvezza non viene mai meno perché è connesso alle emergenze e alle congiunture della vita: siamo infatti sempre esposti al caso, all’essere colpiti da mali della più diversa natura e in queste circostanze desidereremmo ci fosse sempre qualcuno che giungesse in soccorso. Ed è per questo che siamo anche disposti a darlo.

Le prime e più antiche “istituzioni di salvezza” sono state le religioni e il potere politico: sacerdoti, sovrani e Stati.

Nel male siamo immersi o comunque da esso circondati e basta guardarsi attorno per percepirlo: guerre, povertà, genocidi, stragi, sfruttamento dell’uomo sull’uomo, impoverimento dell’ambiente, mafie ed ecomafie; e, per converso, le patologie del benessere: stress, competizione e spreco, eccitazione e depressione e, alla fine di tutto, noia. Innanzi a questo capita spesso d’essere presi da un senso d’impotenza, una sorta di paralisi. Non restano, allora, – come diceva Baudelaire – che il gas, il vapore, i tavolini par lanti: in breve, l’evasione. Segno di questo è l’informazione televisiva che, dopo l’annuncio di una grande strage o d’un disastro, impiega disinvoltamente – come nulla fosse accaduto – la formula: e ora passiamo ad altro argomento.

La modernità aveva avuto la pretesa d’assegnare alla storia un destino: nel suo esito è pervenuta a una totale definalizzazione. L’uomo contemporaneo resta in bilico sul senza-limite ed è chiamato a dominare il caso. 

Viviamo in una società in cui ciò che gli uomini possono realizzare nel tempo della loro vita è di molto inferiore alle possibilità loro offerte. Ne segue che oggi le attese sono spesso più alte dei risultati ottenibili e perciò si trasformano di frequente in pretese e poi in delusioni.

Per quanto scienza e tecnica spostino i confini costantemente in avanti, il confine resta: c’è sempre qualcosa che manca e l’uomo rimane fissato alla sua finitudine.

Finché uomini ci saranno, compito della politica è e resta quello di garantire la giustizia, moderare i conflitti, mantenere la pace, provvedere al pubblico benessere: infine, permettere a ognuno di perseguire la propria felicità.

Note
Leggi anche le citazioni dei filosofi italiani: Dario Antiseri - Remo Bodei - Edoardo Boncinelli - Franco Volpi

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