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Frasi e citazioni di Luigi Pareyson

Selezione di frasi e citazioni di Luigi Pareyson (Piasco, 1918 - Milano, 1991), filosofo italiano, tra i maggiori pensatori cattolici del XX secolo.
Foto di Luigi Pareyson
Il dolore è il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo: solo nella sofferenza
Dio e l’uomo possono congiungere i loro sforzi. (Luigi Pareyson)

L'estetica dell'idealismo tedesco
Edizioni di «Filosofia», 1950

La sfera estetica è passaggio necessario alla moralità, tanto che solo come uomo estetico l'uomo è veramente uomo.

Per vedere la natura come bella occorre considerarla nella sua produttività organica, vale a dire interpretarla. Voler interpretare la natura è già un amarla: l'interpretazione è già una visione innamorata della natura che ne mette in luce la bellezza.

Dostoevskij
Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa © Einaudi, 1976 - Selezione Aforismario

La concezione filosofica di Dostoevskij non è ottimistica perché non minimizza la realtà del male, ma non è nemmeno propriamente pessimistica, perché non afferma l’insuperabilità del male, anzi proclama la vittoria finale (escatologica!) del bene: essa è piuttosto una concezione tragica, che mette la vita dell’uomo sotto l’insegna della lotta fra bene e male: «Satana lotta con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore dell’uomo»; a tal punto che all’uomo non resta altra via al bene che un doloroso passaggio attraverso il male.

Il male, dunque, è negazione: per un verso è «non essere», cioè irrealtà e inesistenza, e per l’altro è «annientamento», cioè distruzione e autodistruzione. Esso non ha una realtà propria, che possa intaccare la realtà del bene: sul piano dell’assoluto, non può se non esser vinto dall’assoluto; perciò esso cerca una realtà in cui insediarsi, e la prende a prestito dall’uomo: di li esso può svolgere la sua opera negatrice, distruggendo non l’assoluto in se stesso, ciò che non potrebbe, ma almeno la sua presenza nel finito.

Insediandosi nell’uomo, il male per un verso diventa esistente e reale, sia pure d’un’esistenza non originaria, ma parassitaria; e per l’altro verso può esercitare, in questa sede avventizia, la sua opera di disgregazione. 

L’uomo, nella sua condizione, non ha altra possibilità di giungere al bene se non portando sino in fondo il processo autodistruttivo del male.

Il bene non è tale se non include in sé, come momento vinto e superato, la stessa realtà o possibilità del male, se cioè non è concepito in termini di riscatto e redenzione.

C’è qualcosa di meglio dell’innocenza, ed è la virtù non ignara del male.

Il paradosso della condizione umana è che l’esperienza del male è una negazione della vita e un avvicinamento al non essere, eppure è un passo avanti nell’affermazione dell’uomo nella vita e nell’essere. 

Né il bene né il male sono necessari. Entrambi sono frutto della libertà; e senza libertà non ci sarebbe il male, ma neanche il bene.

Se è vero che solo l’esperienza del male rivela la libertà, manifestando all’uomo questo suo tesoro nascosto, non è men vero che solo l’esperienza della libertà dà un significato al male e alla sua vicenda, sollecitandolo a dichiarare la libertà che lo precede, e di cui esso è un abuso, e a esigere e annunciare la libertà che lo segue, e che sarà in grado di riscattarlo.

Nel processo di realizzazione del bene il male ha un valore positivo, nella misura in cui attraverso il dolore si capovolge in annunzio di redenzione. 

Senza l’esperienza tragica del male l’uomo resterebbe in un grado inferiore di moralità, privo di quella ricchezza interiore che gli può derivare da una prova così impegnativa. 

Ciò ch’è necessario al bene non è tanto l’esperienza del male, quanto l’esperienza della libertà: per fare consapevolmente il bene, basta aver esperito la possibilità del male, cioè, appunto, la libertà; la libertà infatti implica la possibilità del male senza la necessità della sua reale esperienza.

Sta dunque nella libertà, e non nel male compiuto, il maggior valore della virtù rispetto all’innocenza. 

Il cammino del male è certamente irreversibile, ma ciò non significa che il processo di realizzazione del bene sia univoco e che come superamento del male il bene sia inevitabile: significa soltanto che l’uomo non può più chiudere gli occhi di fronte al male ch’egli ha compiuto, e d’ora in poi per lui il bene non è più possibile se non attraverso l’esperienza del male; ma questo è pur sempre un cammino della libertà, che può portare sia all’esito redentore del bene sia all’esito distruttivo del male.

Ribellione e ateismo sono conseguenze in certo modo «naturali» della libertà originaria; ma, e questo è il punto essenziale, non ne sono l’unica conseguenza né l’unico esercizio possibile.

Se Dio rende la nostra libertà ancora più illimitata, lo fa non nel senso del puro arbitrio, dal quale non può discendere che ribellione, negazione e distruzione, bensì nel senso della responsabilità, sí da accrescere nell’uomo la consapevolezza che ogni sua decisione è una scommessa, una scelta compiuta a proprio rischio, un atto consapevole e deliberato.

Per l’uomo non c’è altro accesso a Dio che la libertà, quella stessa libertà originaria dalla cui illimitatezza egli trae anche la possibilità del puro arbitrio e della mera ribellione, cadendo in entrambi i casi nella distruzione, anzi nell’autodistruzione.

Dio, lungi dall’imporsi alla libertà per prevenirne gli inconvenienti e per dettarle il suo comando, le si affida completamente, e preferisce esserne contestato e perfino negato pur di salvaguardarla nel suo diritto e confermarla nel suo esercizio.

Al giorno d’oggi, dopo l’intensa esperienza nichilistica dell’uomo contemporaneo, l’affermazione di Dio non è più un principio che si possa ricevere dalla dolce abitudine di un costume o ereditare dal sicuro patrimonio d’una tradizione: essa esige ormai non soltanto una riappropriazione personale, in cui per così dire l’ontogenesi ricapitoli la filogenesi, ma una vera e propria riconquista, faticosa come la salita al Golgota, se non dolorosa come la notte di Getsemani.

Oggi l’anima bella, intesa come armonia di sensibilità e razionalità, è diventata oggetto più di sorriso che di ammirazione, giacché si sa bene che la ragione, se non è essa stessa una maschera, almeno può esser usata come tale.

Se oggi non c’è posto per l’anima bella, è perché si conosce bene la potenza del negativo e la presenza della disarmonia. La virtù diventa probabile solo se è descritta come nascente dall’equivoca e melmosa mescolanza di bene e male che s’impaluda nel cuore dell’uomo.

Oggi non c’è bene che non appaia come minato dall’ipocrisia, non più considerata, a sua volta, come un omaggio indiretto alla virtù; e la franchezza, sia pure quella del più dichiarato cinismo, sembra da sola riscattare il male. 

Le grandi idee possono essere mostruose menzogne, e gli impulsi più bassi possono rivestire le sembianze più belle.

Ontologia della libertà
Il male e la sofferenza © Einaudi, 1995 (postumo) - Selezione Aforismario

La ragione filosofica mal sopporta ciò che si sottrae alla sua volontà di comprensione totale, e tende a trascurare e sminuire, anzi a dimenticare e sopprimere tutto quanto la disturba in questa impresa.

Anche chi non crede in Dio non può cessare d'essere interessato a ciò che Dio rappresenta per un credente, ed è solo la filosofia che può mostrarlo.

Il problema del male affonda le sue radici nelle oscure profondità della natura umana e nel segreto recesso dei rapporti dell'uomo con la trascendenza.

È solo la consapevolezza della condivisione della sofferenza umana da parte di Dio, che può impedire alla sofferenza d'essere un aumento della negatività dell'uomo.

È meglio il male libero che il bene imposto.

Vero bene è solo quello che si fa liberamente, potendo fare il male; 

Il male non è assenza di essere, privazione di bene, mancanza di realtà, ma è realtà, più precisamente realtà positiva nella sua negatività.

Il male va distinto in possibile e reale: in Dio è presente come possibile, e lì lo trova l'uomo, che lo realizza nella storia.

L'uomo risveglia sulla scena cosmica il male ch'era sopito in Dio.

La libertà ha introdotto il male nel mondo, e col male la sofferenza. Due eccessi che non si sommano né si neutralizzano a vicenda, ma di cui il secondo è vittoria sul primo. 

Il male non può essere costruttivo: anche se estremizzato esso non porta con necessità dialettica alla positività mediante un capovolgimento. Esso è di per sé devastante e rovinoso: la sua potenza è grande, ma solo distruttiva. Non è la molla del progresso, ma il cammino della perdizione. L’esito positivo, invece, è proprio della sofferenza, l’unica forza superiore a quella immensa del male. 

La potenza del male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore.

Solo il dolore è più forte del male: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male.

Nella grandiosa economia dell’universo importa meno che il malvagio venga punito che non ch’egli si redima.

Come dolore soltanto subito la punizione non fa che moltiplicare il male. Ma il dolore più forte del male e vittorioso su di esso è quello dell’espiazione, il dolore accettato, anzi voluto, anzi desiderato e cercato. 

Con la caduta l’uomo ha voluto rifare l’originazione divina, ed è miseramente naufragato. Egli vede ora che la vera ripetizione umana dell’originazione divina è la sofferenza come espiazione, e quindi come vittoria sul male.

Il destino dell’uomo è l’espiazione.

La libertà umana è cominciata con un consapevole e volontario sacrificio da parte di Dio. Ma da quando l’uomo ha fatto fallire la creazione è stato tutto un seguito di sofferenze.

La radice unica del male e del dolore, ch’è il mistero della sofferenza di cui solo la religione può sollevare il velo, risiede in questa volontà divina di soffrire per l’uomo.

Il dolore è il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo: solo nella sofferenza Dio e l’uomo possono congiungere i loro sforzi.

È estremamente tragico che solo nel dolore Dio riesca a soccorrere l’uomo e l’uomo giunga a redimersi ed elevarsi a Dio. Ma è proprio in questa consofferenza divina e umana che il dolore si rivela come l’unica forza che riesce ad aver ragione del male. 

Che altro è Dio se non la vittoria sul nulla e sul male, la positività originaria che ha schiacciato la potenza della negazione?

L’origine del male è Dio, ma il vero autore ne è l’uomo, che di questa realizzazione porta l’intera responsabilità. 

L'importante non è la ragione per se stessa ma la verità: il valore della ragione dipende dalla sua vincolazione alla verità e dalla sua radicazione ontologica.

L'unico senso in cui si può dire che Egli [Gesù] dà una risposta al problema del male, e che egli è, lui stesso, questa risposta.

Non è senza ragione che l'esperienza religiosa punta soprattutto sul Dio sofferente e redentore, il che conferma che sul problema del male l'ultimo ricorso è alla religione, non certo alla morale.

Note
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