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Aforismi, libri e biografia di Giovanni Soriano

Aforismi, libri e nota biografica di Giovanni Soriano Barbaro (Vibo Valentia, 1969), aforista e pensatore italiano, autore dei libri di aforismi: Maldetti (2007) e Finché c'è vita non c'è speranza (2010), e dei saggi filosofici in stile aforistico: Malomondo (2013) e L'inconveniente umano (2022).
Giovanni Soriano Barbaro Ritratto Inesistenzialista
Ritengo il non essere assolutamente da preferire all’essere.
Sono un inesistenzialista convinto. (G. Soriano Barbaro)

Nota bio-bibliografica
1999 - Laurea in Psicologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma.
2004 - Specializzazione in Psicoterapia presso l’ISP di Roma.
2007 - Pubblicazione del libro Maldetti. Pensieri in soluzione acida (Joker Edizioni).
2009 - Pubblicazione del sito Aforismario (www.aforismario.eu),
2010 - Pubblicazione del libro Finché c’è vita non c’è speranza (Edizioni Kimerik)
2013 - Pubblicazione del libro Malomondo. In lode alla stupidità (Fazi Editore)
2022 - Pubblicazione del libro L'inconveniente umano. Princìpi di sana e consapevole misantropia
(Eretica Edizioni).

Libri pubblicati
Pensieri in soluzione acida
Editore: Joker, 2007

Quest’opera non necessita d’introduzione. Per quel che mi riguarda, non ho fatto che riportare sulla carta i miei pensieri acidi perché non mi corrodessero dentro. Il lettore legga con cautela.





Diario aforistico
Editore: Kimerik, 2010

Il valore di questo diario aforistico sta soprattutto nell’avermi dato un buon motivo per alzarmi dal letto tutte le mattine in cui di buoni motivi non ne avrei avuti affatto. Coloro che, leggendolo, dovessero farsi del sottoscritto l’idea di un cinico, di un misantropo, di un antiteista e persino di un nichilista, sappiano che la loro impressione corrisponde perfettamente al vero.


In lode della stupidità
Editore: Fazi, 2013

Questo non è, propriamente, un libro, ma un rovescio simbolico sul mondo, uno sputo verbale, un pubblico atto di dissociazione, al colmo della nausea, da fedi, ideologie e autocompiacimento umano. Quando, infatti, non ci si sente del tutto a proprio agio nel mondo, ma come estranei anche in casa propria; quando non ci s’intende – non ci si può intendere – con gli altri pur parlando la stessa lingua; quando si disprezza sopra ogni cosa proprio ciò su cui la maggioranza pone maggior valore; quando ciò che ci circonda ci appare brutto o imbruttito dalla presenza e dall’intervento umano; quando, insomma, i cosiddetti propri simili sembrano appartenere a una specie avversa, diversa dalla propria, e ci si riconosce soltanto raramente con qualche altro essere sperduto nello spazio o nel tempo, non resta che il disgusto – unica vera passione a tenerci ancora legati a questo malo mondo.

Princìpi di sana e consapevole misantropia
Editore: Eretica, 2022

Questo libro non ha bisogno di lettori, è un libro autarchico, si regge da sé. Ciò che conta è che sia pubblicato, non che sia letto. Di sicuro non è un libro per lettori comuni, né, tanto meno, per lettori – e soprattutto lettrici – di romanzi e best seller; non parliamo poi dei lettori di giornali... Non è nemmeno un libro per ottimisti o sognatori, né per chi bada ancora alle ciance – politiche o religiose che siano – o per chi crede di far parte di una specie eletta, quella umana, cui sarebbe affidata la sorte del “creato”. Anzi, a dirla tutta, il lettore ideale di queste pagine potrebbe essere proprio un ani-male, magari uno di quegli animali sfruttati dagli umani fino al midollo. Già, forse a un maiale, fosse munito d’intelletto, non dispiacerebbe leggere questo libro.


Aforismi Autoreferenziali
G. Soriano Barbaro, 2007-2022 - Selezione Aforismario

C’è soltanto un caso in cui l’eccezione conta infinitamente più della regola, ed è quello in cui io stesso costituisco l’eccezione.

Accetto la vita e la morte allo stesso modo: nessuna delle due mi entusiasma.

Non mi spaventa la tragicità della vita, è che mi indispettisce il suo lato farsesco.

Io sono uno che s’adatta; a limite, potrei fare a meno persino del televisore...

Sogno un mondo in cui sia stata abolita l’antigienica usanza di stringersi la mano in forma di saluto.

Non sempre condivido le mie idee, ma non vedo perché ciò dovrebbe esimermi dall’esprimerle.

Tutti i miei maestri e quasi tutti i miei amici sono morti già prima che io nascessi.

Un tempo pensavo con rammarico ai tanti libri che non avrei mai avuto il tempo di leggere; oggi mi accade di pensare, con lo stesso rammarico, ai pochi libri davvero degni d’essere letti.

Creatività, libertà di pensiero ed equilibrio interiore: tra le qualità che più apprezzo in un uomo.

Io sono un’obiezione alla vita.

Tra tutti i posti in cui sono stato, quello che preferisco è il letto di casa mia.

Devo ammettere che di fronte ai credenti ho sempre sofferto di un forte complesso di superiorità.

Se la via giusta è quella additataci dal cristianesimo, preferisco perdermi per vie sbagliate.

Se un dio dovesse scendere sulla terra, non lo rinnegherei tre volte, ma tremila volte tanto.

A quelli come me non basterebbe neppure il paradiso.

Non sono io ad essere ateo, siete voi che siete credenti.

“Nella mia vita non ho trascurato niente”, ha detto qualcuno prima di morire; io, da parte mia, finora posso dire di aver trascurato quasi tutto.

La vita è un banale incidente dell’universo che, personalmente, mi ha procurato non pochi grattacapi.

Che qualcuno m’abbia messo al mondo posso anche comprenderlo, ma che nessuno m’abbia chiesto il consenso lo trovo inaccettabile.

Vivo di speranze infondate; il che mi tiene al riparo da qualunque delusione.

Non saprei in che altro modo rendere la mia vita più degna d’essere vissuta, se non continuando a viverla così come ho sempre fatto: indegnamente.

Dalla vita non mi aspetto niente, il che non significa che non mi aspetti di tutto.

Vivo ogni giorno della mia vita come fosse l’ultimo: fregandomene.

Penso di non potermi definire particolarmente intelligente, perché spesso ho dimostrato di non esserlo; ma neppure particolarmente stupido, perché anche come stupido ho grossi limiti. Penso che il meglio che si possa dire di me è che sono una persona intelligente che commette parecchie stupidaggini.

Non è vero, come si dice, che nessuno è indispensabile a questo mondo: io, per esempio, non potrei fare a meno di me stesso.

Non faccio mai progetti a lungo termine, diciamo da qui a un quarto d’ora.

Accumulo pensieri per poterci salire sopra e provare a guardare il mondo dall’alto.

Continuo a pensare che il mondo non sia il posto migliore dove portare un bambino per farcelo rimanere tutta una vita.

L’intelligenza in una donna non m’interessa affatto, mi basta che sia sana di mente.

Amo la solitudine in due.

Ho l’occhio cinico.

Il mio mondo del tutto simile a quello di Lichtenberg: una ragazza, centocinquanta libri, un paio di amici e una prospettiva di qualche chilometro.

Le persone sempre attive, ai miei occhi non hanno gran merito; semplicemente, non sanno star ferme.

Mi accorgo di aver detto una stupidaggine che ha trovato, però, il consenso di tutti i presenti. Dovrei correggermi?

Quando mi si annuncia con entusiasmo la nascita di un bambino, non so se compiangere di più il neonato o i suoi genitori.

Cerco un libro che mi riconcili con la lettura.

Amo la compagnia, ti fa apprezzare ancora di più la solitudine.

Odio il lusso, ma adoro le piccole comodità.

Tenetevi pure tutte le certezze, ma lasciatemi qualche possibilità.

Scrivo ciò che penso senza pensare a ciò che dovrei scrivere.

Ciò che meno mi convince dell’ottimismo sono gli ottimisti.

Piuttosto che leggere un romanzo, preferirei sdraiarmi sul divano e godermi il soffitto.

Solitamente è proprio quando smetto di pensare che mi viene in mente una buona idea.

Datemi un libro e sopporterò il mondo.

Non c’è luogo in cui mi senta più a mio agio che nella solitudine.

Non odio i bambini, li evito soltanto.

Tutto il mio talento lo dispenso nell’ozio.

Ho appeso le mie speranze al chiodo.

Sono instancabilmente pigro.

Vivo i miei giorni a margine dei miei pensieri.

Piuttosto che impiegare il tempo preferisco dormirlo; da qui la mia profonda invidia per tutti gli animali da letargo.

Dal giorno in cui mi son fatto fare una libreria più grande, mi son reso conto di quanto fosse striminzita la mia cultura.

Sono un conversatore poco abile che cerca di rifarsi scrivendo ciò che non ha la prontezza di dire parlando.

Che m’importa della verità quando posso scrivere un buon aforisma mentendo?

O leggi o vivi. Io vorrei vivere, ma mi ritrovo sempre a leggere.

Nel momento in cui i miei pensieri si trasferiscono dalla carta alla mente di un altro, sono ancora quelli che io trasferivo dalla mia mente alla carta?

Ritengo il non essere assolutamente da preferire all’essere. Sono un inesistenzialista convinto.

Per me un credente è uno che non sa di avere un grosso problema da risolvere.

Disapprovo ciò che dici, ma sta’ sicuro che non sacrificherei di certo la mia vita per difendere il tuo diritto a dirlo neppure se l’approvassi.

Sarà per il cognome che porto, ma sento di somigliare assai più a un gatto che alla maggior parte dei miei cosiddetti simili.

Tutto il mio entusiasmo quotidiano lo esaurisco ogni mattina già solo per alzarmi dal letto.

Ho un sogno in un cassetto di cui ho perso la chiave.

I libri cambiano col tempo; personalmente non mi è mai capitato di rileggerne uno che dopo qualche anno fosse ancora lo stesso.

Tutto il mio ottimismo sta nel credere che questo non sia il peggiore dei mondi possibili.

Credo nella fondamentale inutilità dell’esistenza e nelle formidabili battute de I Simpson.

La mia casa è il mio paradiso.

Ci sono casi in cui, riflettendo, ho solo una vaga idea di dove voglio arrivare e di come arrivarci, e casi in cui mi ritrovo in un solo istante là dove non mi ero neppure sognato di andare.

Non riesco a immaginare la fine del mondo se non accompagnata da una grande, fragorosa risata riecheggiante per tutto l’universo.

Anche se esistesse un dio, la religione mi sarebbe ugualmente insopportabile. Anzi, di più.

Che la Madonna appaia a dei pastorelli portoghesi, a una casalinga argentina o persino a una suora giapponese, non mi sorprende affatto; ma se apparisse a me, questo sì che sarebbe un miracolo!

Il cielo stellato dentro di me e la legge morale sotto di me.

Sapere di dover morire mi preoccupa certamente meno di quanto mi sarebbe accaduto se avessi saputo di dover nascere.

Sarò certamente presente al mio funerale, ma non cercatemi al mio matrimonio.

Non ci sarebbe epitaffio più indicato per la mia tomba di quello che Rivarol pensò per la sua: “La pigrizia ce lo aveva rapito ancor prima della morte”.

Anch’io, un po’ alla Stirner, ho fondato la mia vita su nulla, e posso dire che non c’è niente di più solido.

Ringrazio di cuore chi mi ha generosamente donato la vita, ma un paio di scarpe nuove sarebbe potuto bastare.

Seppure, come Giobbe, maledico il giorno della mia nascita, come certi saggi dell’antichità – ma soltanto per ignobili motivi fisiologici – ringrazio comunque la sorte di non avermi fatto donna.

A vent’anni – con l’ingenuità tipica di quell’età – pensavo che il mondo fosse un posto infelice. Oggi, che ne ho piú di quaranta, so che è qualcosa di peggio.

Tra la noluntas di matrice schopenhaueriana, fatta di ascetismo e rinuncia alla volontà di vivere, e l’amor fati nietzschiano, animato da accettazione gioiosa e dionisiaca della vita, propenderei, come atteggiamento di fronte all’esistenza, per una terza via – assai piú praticabile – suggerita da quel filosofo sotto mentite spoglie che è Woody Allen: «È chiaro che il futuro offre grandi opportunità; è anche disseminato di trabocchetti; il trucco consiste nell’evitare i trabocchetti, prendere al balzo le opportunità e rientrare a casa per l’ora di cena».

Non ho nulla contro il prossimo, ma con chi lo mette al mondo.

Il mondo è uno spettacolo al quale – se avessi avuto modo sin dall’inizio di scegliere – avrei fatto volentieri a meno di assistere. Non che questa tragicomica farsa sia del tutto priva di spunti interessanti o manchi di aspetti piacevoli, no, è che nel complesso è abbastanza deludente, e, alla fine, non vale il prezzo del biglietto.

In questo mondo mi sento un disertore, ma con l’orgoglio di esserlo.

Posso fare tranquillamente a meno della compagnia altrui, compresa quella dei cosiddetti “amici”; un po’ meno tranquillamente di quella delle donne – e non certo per amore della conversazione. Ciò di cui non posso proprio fare a meno è la solitudine – senza, mi sentirei davvero troppo solo.

Di solito, i miei rapporti con gli altri sono improntati su un piano di grande lealtà e franchezza reciproche: io non piaccio a loro e loro non piacciono a me.

Il mio lato piú volgare – direi quasi “piú umano” – si rivela nell’incapacità di mantenere verso il prossimo un’indifferenza tale da consentirmi di non disprezzarlo cosí spesso come, purtroppo, mi accade di fare. Qualcuno ha detto molto saggiamente: «Non amo abbastanza gli umani per poterli odiare».

Io non sono misantropo, è l’umanità che è insopportabile.

Nell’umano è stato visto, di volta in volta, l’animale politico, l’animale sociale, l’animale ragionevole, l’animale religioso e cosí via; da parte mia, nell’umano vedo soprattutto l’animale ipocrita – un gradino sotto la iena quanto a simpatia e molto sopra il verme quanto a viscidità.

Fondatori di religioni, conquistatori, rivoluzionari e grandi uomini d’azione in genere, per quanto ammirati, osannati o divinizzati dalle folle, a me, stranamente, hanno sempre dato l’impressione di essere piú che altro dei poveri illusi, i quali, dietro tutte le loro indiscutibili qualità personali, nascondono la semplice incapacità di starsene «in pace in una camera».

Sebbene la vita non m’abbia mai entusiasmato piú di tanto, mi considero pur sempre un privilegiato, visto che mi ritrovo ancora tutti gli arti al loro posto, il cervello e la vista, bene o male, funzionano ancora, ho un tetto sulla testa, il pane non mi manca e, per giunta, non sono neppure costretto a sgobbare tutto il giorno per procurarmelo. Insomma, per dirla con Woody Allen, mi ritengo sicuramente fortunato di appartenere alla categoria del “miserrimo” e non a quella dell’“orribile”, di cui fanno parte tutti coloro cui manca pure l’essenziale. Come questi, poi, riescano ad andare avanti è davvero difficile comprenderlo.

Avendo osservato fin troppo spesso dei perfetti imbecilli lamentarsi della stupidità altrui, e non possedendo, purtroppo, alcun dato certo e inconfutabile che mi consenta a tutt’oggi di considerarmi un’eccezione, non mi resta che rassegnarmi e aggiungermi anch’io, preventivamente, alla folta schiera degli stupidi cui manca la consapevolezza di esserlo.

A volte mi chiedo se l’intolleranza delle persone intelligenti nei confronti degli stupidi non sia, in fondo, una forma piú sottile di stupidità; tuttavia, da perfetto intollerante quale sono, ho piú spesso l’idea che in casi simili la tolleranza sia qualcosa di peggio.

Se per Ceronetti la domanda più indiscreta, piú insolente, piú insoffribile, piú comune e piú persecutoria è: «Come stai?», la domanda che, personalmente, considero piú sconfortante, piú sciocca, piú inutile e piú imbarazzante di tutte, quella dalla quale è quasi impossibile sottrarsi e che da sola potrebbe compromettere la stima che, eventualmente, dovessi provare nei confronti di chi la pone, è: «Di che segno sei?».

Per uno che ce la fa, ce ne sono novecentonovantanove che finiscono nella fogna, e a me, piú del primo, sono questi novecentonovantanove che danno da pensare.

«Ci sono crimini peggiori del bruciare libri. Uno di questi è non leggerli», dice Brodskij; un altro è scriverli, aggiungo io.

Posso capire che si ami far collezione di romanzi per farne bella mostra sugli scaffali della propria libreria; ciò che mi lascia perplesso è che se ne acquistino sempre di nuovi con l’intento di leggerli – e poi li si legga davvero.

Scrivere, per quanto mi riguarda, è un atto di violenza, è tirar sassi contro mulini a vento; è condurre, in fiera e completa solitudine, un’estenuante guerriglia contro nemici invisibili con l’intima consapevolezza d’essere, comunque, perdente.

Quanto piú conosco gli umani, tanto meno mi fido dei libri.

Autore marginale di un genere marginale, contribuisco alla mia marginalizzazione scrivendo cose che la gente odia sentirsi dire, un po’ come Jean Rustin – ma con ben altri risultati – dipinge ciò che molti rifiutano di vedere.

C’è chi scrive col sangue, chi con le lacrime, ciò è noto; ma esiste una terza categoria: quella di chi scrive con la bile. Io appartengo a quest’ultima.

Da Eraclito in poi, ci sono sempre stati autori “oscuri” che hanno fatto volutamente uso di uno stile criptico per tenersi sopra la portata delle menti ordinarie. Per quanto mi riguarda, mi è sufficiente usare uno stile molto limpido – tra l’altro a me piú congeniale – perché la maggior parte dei comuni lettori, comprendendo chiaramente ciò che intendo dire, fugga inorridita e si tenga a debita distanza.

Scrivere, come fanno in molti, su commissione e su argomenti dettati da altri; redigere prefazioni a libri di terza o quarta categoria; stilare continuamente articoli su articoli per commentare i fatti del giorno; fare, insomma, della scrittura un volgare mestiere col quale guadagnarsi da vivere è un’attività giustificabilissima, ma talmente lontana dal mio modo di essere, che preferirei alzarmi alle cinque di mattina per scaricare cassette di frutta al mercato piuttosto che sottopormi a un simile supplizio. L’esempio è forse un po’ esagerato, ma l’idea è quella.

Si dice che bisogna vivere per poter scrivere. Io mi dispongo a fare esattamente il contrario.

Contrariamente a molti scrittori di professione, a me – che scrittore non sono – non capita mai di mettermi a pensare per scrivere, ma, piuttosto, di scrivere per aver pensato. Anzi, dirò di piú: scrivere mi è necessario per liberarmi di un pensiero affinché non continui ad assillarmi, non conoscendo modo migliore per farlo che spiaccicarlo su una pagina.

La scrittura, per quel mi riguarda, ha piú a che fare con la fisiologia che con la letteratura. Se scrivo, infatti, non è certo per occupare il tempo con giochi da intellettuale o per velleità letterarie, ma per qualcosa di molto piú impellente: per disgusto. Allo stesso modo, ciò che piú di ogni altra cosa mi spinge a pubblicare quello che scrivo, non è tanto la vanità – motivazione tra le piú banali che, in misura diversa, accomuna tutti, grandi e piccoli –, quanto il desiderio, anzi, il bisogno di rigettare questo disgusto in faccia al mondo. Se in certi casi scrivere è liberatorio, pubblicare quanto si è scritto diventa persino salutare.

Cioran ambiva a concepire «un solo e unico pensiero – ma che mandasse in frantumi l’universo». Io, piú modestamente, mi accontenterei di un pensiero che, da solo, giustificasse un’esistenza. La mia.

Anche a me, come tutti, capita, specie in momenti di debolezza, di sognare un mondo migliore; l’unico particolare che mi distingue dagli altri, è che per me un mondo migliore è incompatibile con la presenza umana. Se dovessi descrivere il mio mondo ideale, direi che sarebbe un po’ una via di mezzo tra la Terra e un qualsiasi altro pianeta del sistema solare; un mondo, cioè, dove l’incomparabile bellezza del paesaggio si fonde con un’assoluta mancanza di abitanti.

Il deserto è, per me, la folla, e mia oasi la solitudine.

Più conosco gli umani, più invidio la vita di quei minuscoli insetti che si nascondono sotto i sassi o tra gli interstizi della corteccia degli alberi marcescenti.

Sono talmente persuaso che nascere sia una sventura, che fingere costernazione al funerale di uno sconosciuto mi sarebbe molto più facile di quanto mi accada di riuscire a rallegrarmi in modo convincente di fronte a un amico o a un parente per la nascita di un figlio.

Il mio pessimismo, anzi, il mio catastrofismo è talmente irrimediabile e sono così persuaso che non ci sia fine al peggio, che se ho qualche dubbio sul fatto che la morte sia davvero la fine di tutto è che sarebbe troppo bello per essere vero.

“Io non sono un uomo, sono dinamite”, scriveva Nietzsche con riferimento all’effetto dirompente della sua filosofia. Io, più modestamente, potrei dire di essere ruggine. Ciò che scrivo è fatto più per corrodere certe convinzioni che per farle saltare in aria.

Avere una stanza tutta per sé – come riteneva necessaria Virginia Woolf – dove poter svolgere in santa pace la propria attività creativa, per quanto mi riguarda non è abbastanza. Se si vogliono fare le cose seriamente, quel che ci vuole è un’intera casa tutta per sé, magari pure con un bel giardino intorno e, soprattutto, senza vicini che possano disturbare.

Quale autore, avendo deciso di pubblicare un libro, pur sapendo che sarà letto da non più di una dozzina di lettori, sarebbe così scemo da perdere un’infinità di tempo a rileggersi le bozze più e più volte, passando al setaccio ogni periodo, ogni parola e ogni singolo segno di punteggiatura, nel delirante inseguimento di una perfezione impossibile da raggiungere? Io, chi altri?

Non perdono, ma fingo di dimenticare.

Oggi soltanto i fessi chiedono permesso, ringraziano o chiedono scusa tutte le volte che le circostanze lo richiedono. Io sono uno di loro.

L’unico dovere al quale non mi sono mai sottratto è quello di fare in modo di non averne alcuno.

Se si vuole vivere davvero bisogna uscire dalla propria zona di comfort. Io lo faccio ogni giorno – e precisamente ogni volta che metto i piedi fuori dal letto.

Un ultimo favore, se è possibile: quando morirò evitatemi il funerale in chiesa e i discorsi del prete – non potrei difendermi...

Aforismario di Giovanni Soriano


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