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Frasi Filosofiche Incomprensibili

Raccolta di frasi filosofiche incomprensibili e di riflessioni metafisiche astruse o, nel migliore dei casi, molto complesse e difficili da comprendere. Se c'è una cosa che più di ogni altra si rimprovera a certi filosofi è proprio il fatto di parlare di cose troppo astratte, di esprimersi in modo troppo complicato e di non farsi capire se non da chi condivide lo stesso gergo filosofico. 
Come nota Karl Popper: 
"Ogni filosofia, e in particolare ogni "scuola" filosofica, è soggetta a una degenerazione tale che i suoi problemi diventano praticamente indistinguibili da pseudo-problemi, e il suo gergo, in conseguenza, non può più essere distinto in pratica dal chiacchierio privo di significato". [Congetture e confutazioni, 1963].
Come nota Giovanni Soriano: 
"Chiunque scriva in maniera oscura e sofisticata, rendendo complesse anche le cose più semplici e incomprensibili quelle più banali, obbligando il lettore a uno sforzo di concentrazione per capire che quanto si è letto non valeva la pena di essere né letto né scritto, è un miserabile impostore, fosse pure il più acclamato dei filosofi. [...] 'La chiarezza è la cortesia del filosofo', dice José Ortega y Gasset. No, non si tratta di cortesia, si tratta di semplice onestà intellettuale". [L'inconveniente umano, 2022].
Tra i filosofi più incomprensibili che Aforismario ha individuato fino a oggi vi sono: Hegel, Husserl e Heidegger, di cui si riportano varie citazioni. Un consiglio: dopo aver letto i seguenti passi filosofici, conviene fare una passeggiata all'aria aperta, magari in un parco, per ridiscendere coi piedi per terra e riprendere contatto con la realtà.
Ritratto di Hegel
Soltanto nella filosofia la ragione è del tutto presso sé stessa. (Hegel)

L’autocoscienza è la riflessione a partire dall’essere del mondo sensibile e percepito, ed è essenzialmente il ritorno dall’essere-altro. In quanto autocoscienza, essa è movimento; ma poiché essa distingue da sé soltanto se stessa in quanto se stessa, allora ai suoi occhi è immediatamente levata la differenza, intesa come un essere-altro. La differenza dunque non è, e l’autocoscienza è solamente l’immota tautologia dell’“Io sono Io”; nella misura in cui agli occhi dell’autocoscienza la differenza non ha anche la figura dell’essere, l’autocoscienza non è tale.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807

Solo nell’autocoscienza intesa come concetto dello spirito la coscienza ha il proprio punto di svolta: laddove essa, abbandonando la colorata parvenza dell’aldiqua sensibile, e la vuota notte dell’aldilà soprasensibile, fa il suo ingresso nel giorno spirituale della presenza.
G. W. F. Hegel, ibidem

L’autocoscienza è, innanzitutto, semplice essere-per-sé, è uguale a se stessa, escludendo da sé tutto quel che è altro; l’Io costituisce ai suoi occhi la sua essenza e il suo oggetto assoluto; ed in questa immediatezza, o in questo essere del suo essere-per-sé, l’autocoscienza è un che di singolo.
G. W. F. Hegel, ibidem

L’essenza dell’autocoscienza autonoma è, da una parte, solamente la pura astrazione dell’Io; dall’altra, mentre tale astrazione si viene formando e si dà differenze, agli occhi di quell’autocoscienza tale differenziare non diviene essenza oggettiva in-sé-essente.
G. W. F. Hegel, ibidem

Pensare vuol dire essere oggetto a se stesso non come Io astratto, bensí come Io che ha nel contempo il significato di essere-in-sé; ovvero, vuol dire rapportarsi all’essenza oggettiva in modo tale che essa abbia il significato di essere-per-sé della coscienza per la quale tale essenza è.
G. W. F. Hegel, ibidem

Per la coscienza infelice, l’essere-in-sé costituisce l’aldilà di se stessa. Ma il compiersi del suo movimento, in lei, ha fatto sí che la singolarità venisse posta nel suo completo sviluppo; ossia ha posto quella singolarità in cui consiste la coscienza effettiva come il negativo della coscienza stessa, cioè come l’estremo oggettivo; ovvero ancora, la coscienza ha lottato per estrapolare da sé il proprio essere-per-sé, e ne ha fatto l’essere.
G. W. F. Hegel, ibidem

Ciò che è universalmente valido esercita anche universalmente la propria validità; ciò che deve essere, è anche di fatto, e ciò che si limita a dover essere, senza però essere, non ha verità alcuna. 
G. W. F. Hegel, ibidem

Il fare dell’autocoscienza è un fare del desiderio soltanto secondo uno dei momenti: essa non procede a cancellare l’intera essenza oggettiva, bensí solamente la forma del suo essere-altro o della sua autonomia, che è una parvenza priva d’essenza; infatti essa considera quell’essere-altro, in sé, come l’essenza stessa, ossia alla stregua della propria ipseità.
G. W. F. Hegel, ibidem

Quando la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, la ragione è spirito, ed è consapevole di se stessa come del proprio mondo, e del mondo come di se stessa.
G. W. F. Hegel, ibidem

Lo spirito è il Sé della coscienza effettiva, a cui esso viene a contrapporsi; o piuttosto, è quella coscienza che viene a contrapporsi a se stessa come mondo oggettivo ed effettivo; un mondo che però ha perduto per il Sé ogni significato d’estraneità, cosí come il Sé ha perduto ogni significato di essere-per-sé separato, dipendente o indipendente dal mondo.
G. W. F. Hegel, ibidem

Lo spirito è l’essenza reale assoluta che sostiene se stessa.
G. W. F. Hegel, ibidem

Lo spirito di questo mondo è l’essenza spirituale compenetrata da un’autocoscienza che si sa immediatamente presente come questa autocoscienza essente per sé, e che sa l’essenza come una realtà effettiva di fronte a sé. 
G. W. F. Hegel, ibidem

Lo spirito che sa lo spirito è coscienza di se stesso, ed è ai propri occhi nella forma dell’oggettività: esso è; e nel contempo è l’essere-per-sé. È per sé, è il lato dell’autocoscienza, e lo è appunto di contro al lato della sua coscienza, ossia del rapportarsi a se stesso come oggetto.
G. W. F. Hegel, ibidem

Nulla viene saputo che non sia nell’esperienza, ossia – secondo un altro modo di esprimere la medesima cosa – non viene saputo nulla che non sia dato come verità avvertita dai sensi, come eterno rivelato interiormente, come sacro a cui si crede, o come altrimenti ci si voglia esprimere
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807

Il giudicare è un intendere (Meinen) e in generale un pretendere (Vermeinen) che la cosa stia cosi e cosi; il giudizio (ciò che è giudicato) è quindi solo qualcosa di preteso o meglio è il preteso contesto oggettivo oppure l’intenzione oggettiva, l’intenzione del contesto oggettivo. Ma di contro a ciò può sussistere una intenzione giudicativa privilegiata, cioè l'aver-consaputo giudicativamente una cosa determinata. Ciò dicesi evidenza.
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, 1950

Tutte le teorie filosofico-trascendentali della conoscenza che compongono la critica della conoscenza ci conducono in fine alla critica originaria della conoscenza fenomenologico-trascendentale (innanzitutto dell’esperienza trascendentale); a sua volta questa critica, nell’atto in cui la fenomenologia si riporta essenzialmente a se stessa, avrà bisogno di una nuova critica.
Edmund Husserl, ibidem

L’ego trascendentale è risultato dalla messa in parentesi dell’intero mondo oggettivo e di tutte le altre oggettività (anche ideali). Mediante quest’atto io son divenuto conscio di me come ego trascendentale, che nel suo vivere costitutivo costituisce tutto ciò che mi è oggettivo; l’io di tutte le costituzioni, il quale sta nei suoi vissuti attuali o potenziali e nelle sue abitualità d’io e in queste spiritualità e in questi momenti costituisce anche, come ogni che di oggettivo, cosi anche se stesso in quanto ego identico. 
Edmund Husserl, ibidem

Nell’esperienza dell’altro, così com’esso mi si dà direttamente quando io ne approfondisco il contenuto ontico-noematico (puramente come correlato del mio cogito, la cui struttura particolare dev’essere ancora mostrata), io non ottengo che una guida trascendentale.
Edmund Husserl, ibidem

Quando io nella riduzione trascendentale rifletto su di me, come ego trascendentale, io sono dato per me come questo ego nella maniera della percezione, anzi in percezione comprensiva. Io divengo consapevole anche di ciò, che io per l’innanzi c’ero già come dato per me, ma senza essermi colto, in modo originariamente intuitivo (in senso più ampio, percepito). 
Edmund Husserl, ibidem

Manifestamente, la sfera di proprietà, essenziale a me come ego, non si estende soltanto — e questo è degno di particolare attenzione — alle attualità o potenzialità del corso dei vissuti ma, come ai sistemi costitutivi, cosi anche alle unità costituite, questo però solo entro certi limiti. Cioè, se ed in quanto l’unità costituita è inseparabile dalla costituzione originale stessa, nel modo d’una unicità concreta immediata, in tanto l’essere percepito, come il percepire costitutivo, appartiene alla mia proprietà concreta.
Edmund Husserl, ibidem

Quando nell’esperienza si rileva un oggetto concreto come qualcosa a sé e quando vi si dirige l’attenzione dello sguardo comprensivo, allora, in tale prensione semplice, esso ci si appropria come mero oggetto indeterminato della intuizione empirica. Determinato e ulteriormente determinantesi, esso lo diviene quando l’esperienza prosegue sotto forma di un’esperienza determinante ed anzi descrittiva dell’oggetto stesso in base ad esso, ossia sotto forma di una pura esplicitazione. Questa esperienza, pro-cedendo in sintesi articolate sul fondamento dell’oggetto dato in identità con se stesso nella sintesi intuitiva continuata della identificazione, sviluppa, in legami di intuizioni particolari, le determinazioni proprie dell’oggetto stesso, ossia le determinazioni interne. Queste compaiono originariamente come tali che in esse l’oggetto identico, stesso, per ciò che esso è, anzi per ciò che è in sé e per sé, è in se stesso, e vi si esplica nelle proprietà particolari il suo essere identico, ossia ciò che esso - in particolare - è.
Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, 1950

L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo. L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere. L’essere è ciò di cui ne va sempre per questo ente.
Martin Heidegger, Essere e tempo, 1927

L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. I caratteri evidenziabili di questo ente non sono quindi «proprietà» semplicemente-presenti di un ente semplicemente-presente, «avente l’aspetto» di essere così o così, ma sono sempre e soltanto possibili maniere di essere dell’Esserci, e null’altro. Ogni esser-così, proprio di questo ente, è primariamente essere. Perciò il termine «Esserci», con cui indichiamo tale ente, esprime l’essere e non il che-cosa, come quando si dice pane, casa, albero.
Martin Heidegger, ibidem

L’Esserci si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che, nel suo essere, in qualche modo comprende. Questo è il senso formale della costituzione dell’esistenza dell’Esserci.
Martin Heidegger, ibidem

L’Esserci è un ente che, comprendendosi nel suo essere, si rapporta a questo essere. Con ciò è indicato il concetto formale di esistenza. L’Esserci è inoltre l’ente che io stesso sempre sono. L’esser-sempre-mio appartiene all’Esserci esistente come condizione della possibilità dell’autenticità e dell’inautenticità. L’Esserci esiste sempre in uno di questi modi o nell’indifferenza modale rispetto a essi.
Martin Heidegger, ibidem

Quando indaghiamo ontologicamente il «mondo», non abbandoniamo per nulla il campo tematico dell’analitica dell’Esserci. Ontologicamente il «mondo» non è affatto una determinazione dell’ente difforme dall’Esserci, ma è, al contrario, un carattere dell’Esserci stesso. Ciò non esclude però che la via della ricerca intorno al fenomeno del «mondo» debba passare attraverso l’ente intramondano e il suo essere.
Martin Heidegger, ibidem

Il mondo non è esso stesso un ente intramondano; tuttavia esso determina questo ente in modo tale da far sì che possa essere incontrato e manifestarsi nel suo essere, come ente scoperto, solo perché «c’è» il mondo.
Martin Heidegger, ibidem

L’essere-nel-mondo, cui appartiene con uguale originarietà l’essere-presso l’utilizzabile e il con-essere con gli altri, è sempre in-vista-di se stesso. Il se-Stesso è però, innanzi tutto e per lo più, un se-stesso inautentico, un Si-stesso. L’essere-nel-mondo è sempre già deietto. La quotidianità media dell’Esserci può quindi essere determinata come l’essere-nel-mondo deiettivo-aperto e gettato-progettante, per il quale, nel suo esser-presso il «mondo» e nel con-essere con gli altri, ne va del suo stesso poter-essere più proprio.
Martin Heidegger, ibidem

La distinzione così evidente dell’essere dell’Esserci esistente rispetto all’essere dell’ente non conforme all’Esserci (ad esempio la realtà) è solo il punto di partenza della problematica ontologica e non qualcosa in cui la filosofia possa acquietarsi. 
Martin Heidegger, Essere e tempo, 1927

L’uomo, che è un ente fra gli altri, «fa scienza». In questo «fare» accade niente di meno che l’irruzione di un ente, detto uomo, nella totalità dell’ente, in modo tale che l’ente, in questa e per questa irruzione, si dischiude in ciò che è e per come è. È solo questa irruzione che dischiude a consentire a suo modo all’ente di arrivare a se stesso.
Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, 1929

La scienza rifiuta il Niente e lo abbandona come nullità. Ma abbandonando il Niente in questo modo, non finiamo forse proprio per ammetterlo? E, d’altra parte, possiamo parlare di un’ammissione se ciò che ammettiamo è niente? Ma forse con questo «andirivieni» del discorso ci muoviamo in un vuoto gioco di parole. 
Martin Heidegger, ibidem

Che cosa può essere per la scienza il Niente se non una mostruosità e una fantasticheria? Se la scienza ha ragione, allora una cosa è certa: del Niente la scienza non vuol saperne niente. Questa è dunque la comprensione scientificamente rigorosa del Niente. Del Niente sappiamo che non vogliamo saperne niente.
Martin Heidegger, ibidem

Solo sul fondamento dell’originaria manifestatezza del Niente, l’esserci dell’uomo può dirigersi all’ente e occuparsene. Ma in quanto l’esserci per sua essenza si rapporta all’ente, all’ente che egli non è e all’ente che egli stesso è, l’esserci, in quanto esserci, già da sempre proviene dal Niente che è manifesto.
Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, 1929

Esser-ci significa essere tenuto immerso nel Niente. Tenendosi immerso nel Niente, l’esserci è già sempre oltre l’ente nella sua totalità. Questo essere oltre l’ente noi lo chiamiamo trascendenza. Se l’esserci, nel fondo della sua essenza, non trascendesse, ossia, come ora possiamo dire, non si tenesse immerso fin dall’inizio nel Niente, non potrebbe mai rapportarsi all’ente, e perciò neanche a se stesso.
Martin Heidegger, ibidem

Il Niente non è un oggetto, né in generale un ente. Il Niente non si presenta per sé, né accanto all’ente a cui per così dire inerisce. Il Niente è ciò che rende possibile la manifestatezza dell’ente come tale per l’esserci umano. Il Niente non dà solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essere essenziale (Wesen) stesso. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del Niente.
Martin Heidegger, ibidem

L’esserci umano può comportarsi in rapporto all’ente solo se si tiene immerso nel Niente. L’andare oltre l’ente accade nell’essenza dell’esserci. Ma questo andare oltre è la metafisica stessa. Ciò implica che la metafisica faccia parte della «natura dell’uomo».
Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, 1929

Se la filosofia comincia con la creazione dei concetti, il piano di immanenza deve essere considerato pre-filosofico. Ne è presupposto, non alla stregua di un concetto che rinvierebbe ad altri, ma nel senso di una comprensione non concettuale cui i concetti stessi rinviano. E questa comprensione intuitiva varia ancora a seconda del modo in cui il piano è tracciato.
Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, 1991 

Note
Vedi anche aforismi, frasi e citazioni su: Filosofia - Filosofare - Filosofi - Sistemi Filosofici - Metafisica

Frasi e citazioni di Nicola Abbagnano

Selezione di frasi e citazioni di Nicola Abbagnano (Salerno 1901 -Milano 1990), filosofo, storico della filosofia e accademico italiano. Fondatore dell'esistenzialismo positivo, Nicola Abbagnano è considerato il maggior esponente della corrente esistenzialista italiana. 
Foto di Nicola Abbagnano
Chi ha avuto la fortuna di incontrare l'amore, faccia di tutto per mantenerlo vivo,
perché l'amore non invecchia. E chi non l'ha incontrato, apra il cuore alla speranza,
poiché la vita è sempre una speranza d'amore. (Nicola Abbagnano)

La struttura dell'esistenza
© Paravia, 1939

La filosofia non può cominciare che dalla filosofia, cioè dalla determinazione della propria essenza e del propri compiti.

Introduzione all'esistenzialismo
© Bompiani, 1942

Esistere significa proprio e solo filosofare, sebbene filosofare non significhi sempre fare della filosofia. E infatti filosofare significa per l'uomo, in primo luogo, affrontare ad occhi aperti il proprio destino e porsi chiaramente i problemi che risultano dal proprio rapporto con se stesso, con gli altri uomini e col mondo.

Alla filosofia l'uomo può e deve chiedere di comprendere un po' meglio se stesso; e gli uomini di intendersi un po' meglio tra loro. 

La comprensione di sé, l'intelligenza reciproca fra gli uomini, sono a fondamento di ogni opera, di ogni lavoro umano; e costituiscono la trama di cui è tessuta la vita quotidiana del singolo, come la vita storica dell'umanità.

Storia della filosofia
© UTET, 1946-1963

Ogni vero filosofo è un maestro o compagno di ricerca, la cui voce ci giunge affievolita attraverso il tempo, ma può avere per noi, per i problemi che ora ci occupano, un'importanza decisiva.

Filosofia, religione, scienza
© UTET, 1947

Per scoprire l'autentica oggettività del mondo l'uomo non deve pensare il mondo come una parte di sé, ma deve sentire se stesso come parte del mondo.

L'esistenzialismo positivo
© UTET, 1948

Di fronte ad ogni filosofia, bisogna chiedersi se il concetto della realtà, cui essa mette capo, rende possibile il problema, da cui essa nasce. Se non lo rende possibile, il risultato implicito è sempre la totale e irrimediabile vacuità della filosofia. Ora a questa vacuità l'esistenzialismo intende sottrarsi. Esso esige che la filosofia debba da ultimo giungere a giustificare il proprio problema, a dimostrarne l'intrinseca possibilità. Tale è, si può dire, la caratteristica fondamentale dell'esistenzialismo.

L'esistenzialismo tende a sottrarre l'uomo all'indifferentismo anonimo, alla dissipazione, all'infedeltà a se stesso e altri altri: tende a restituirlo al suo destino, a reintegrarlo nella sua libertà.

L'uomo è il solo essere pensante finito; il sapere problematico costituisce perciò la condizione e il modo d'essere dell'uomo. Se si chiama esistenza il modo d'essere dell'uomo, il sapere problematico definisce ed esprime l'esistenza. Si rivela a questo punto quel tratto da cui l'esistenzialismo prende nome: l'identità tra esistenza e filosofia. Questo non è certo una novità. Che altro è mai stata la filosofia se non lo sforzo incessante dell'uomo di giungere a una qualche chiarezza intorno all'essere che gli è proprio?

L'esistenzialismo non è una scuola e ripudia il proselitismo.

Esistenzialismo come filosofia del possibile
1952

L’esistenzialismo si rifiuta di dare all'uomo garanzie infallibili, si rifiuta cioè di cullarlo in un ottimismo troppo fiducioso che addormenterebbe la sua vigilanza e lo esporrebbe senza difese a tutti i pericoli. Ma dall'altro lato, l’esistenzialismo deve rifiutarsi di paralizzare l’uomo e di inchiodarlo all'inerzia e all'abbandono prospettandogli unicamente la non riuscita e lo scacco di tutte le sue iniziative. Deve piuttosto condurre l’uomo alla libertà della scelta tra queste iniziative, consentendogli di scegliere, caso per caso, nel modo migliore e più ragionevole.

Morte o trasfigurazione dell'esistenzialismo
1955

Le filosofie esistenzialistiche tendono a sottolineare l’instabilità dell’esistenza e l’incertezza della realtà tutta di cui essa fa parte.

Si può dire che l’esistenzialismo è caratterizzato dal fatto di intendere ed esercitare il filosofare come «analisi dell’esistenza».

La letteratura detta esistenzialistica tende a sottolineare le vicende umane meno rispettabili e più tristi, peccaminose e dolorose, nonché l’incertezza delle intraprese, sia buone che cattive, e l’ambiguità del bene stesso, che mette capo al suo contrario. E, per considerare gli atti più banali, una foggia di vestire «esistenzialistica» tende a far apparire i giovani scapigliati che l’adottano come «anime perse» in perenne protesta contro la rispettabilità borghese della società contemporanea.

L’esistenzialismo afferma che l’uomo è una realtà finita, che esiste ed opera a suo rischio e pericolo.

L’esistenzialismo afferma che l’uomo è «gettato nel mondo», cioè abbandonato al determinismo di esso, che può rendere vane o impossibili le sue iniziative.

L’esistenzialismo afferma che la libertà dell’uomo è condizionata, finita, impacciata da molte limitazioni che possono ad ogni momento renderla sterile e farla ricadere su ciò che è già stato o è già
stato fatto.

L’esistenzialismo disconosce o ignora la nozione stessa di progresso perché non può scorgere di esso alcuna garanzia.

Non basta, a caratterizzare una filosofia, l’esposizione dei suoi temi preferiti. Non basta ad es. dire che l’esistenzialismo è la filosofia dell’angoscia o dello scacco o della nausea; ci sono infatti altre forme di esistenzialismo che hanno per tema preferito l’Essere o il Valore o il Mistero (in senso teologico), senza che nessuno di questi temi possa essere assunto a qualificare l’insieme del movimento.

Per ciò che riguarda l’avvenire, pare che l’esistenzialismo abbia lasciato l’uomo allo sbaraglio; che si sia rifiutato di proporgli qualsiasi mezzo, strumento, tecnica o atteggiamento atto ad affrontare l’instabilità delle faccende umane

Per o contro l'uomo
© Rizzoli 1968 - Selezione Aforismario

Da ultimo, la domanda che rimane sullo sfondo di ogni problema, ma che deve essere posta in primo piano e la cui risposta deve orientare la scelta delle soluzioni è una sola: per l’uomo o contro l’uomo?

La condizione dell’uomo non è quella di un padrone né quella di uno schiavo del proprio destino, ma quella di un artigiano o, se si vuole, di un artista disciplinato e laborioso. Ma questo artista non può affidarsi all’estro dell’improvvisazione: c’è una domanda che glielo impedisce, ed è sempre quella: per l’uomo o contro l’uomo?

Per quanti limiti od ostacoli incontri la possibilità dell’uomo di progettare la sua vita e di atteggiare in modi vari il suo essere o la sua natura, questa possibilità definisce l’uomo nei confronti di tutti gli altri animali e ne costituisce la migliore condizione di sopravvivenza.

L’autentica natura dell’uomo non è l’istinto come forza necessitante, bensì la ragione che non necessita a nulla ma gli fa vedere le alternative che gli si offrono e scegliere a ragion veduta fra esse.

La ragione non ha certo la pretesa dell’infallibilità che appartiene in proprio all’istinto ma possiede una capacità più umana e positiva: quella di riconoscere l’errore nei propri risultati e nei propri metodi e di essere continuamente vigile e disposta alla correzione dell’errore stesso. Rafforzare questa vigilanza e rendere più sicuri i procedimenti della ragione è un compito molto più difficile, ma certo più efficace, della pretesa di affidarsi all’istinto.

Non si può far tutto di tutti. Ciascuno di noi possiede capacità o talenti limitati, che si tratta di coltivare e sviluppare nel modo più conveniente.

Può ben darsi che la stoffa di un romanziere o di un artista si celi nei panni di un ragioniere o di un industriale o viceversa; ma può anche non darsi. Esistono vocazioni cieche, come esistono amori non corrisposti.

La frase «Non posso cambiarmi» può contenere, dopotutto, una certa verità. Ma se essa significa il rifiuto della persona di venire incontro alle esigenze degli altri e di prestare agli altri quella comprensione, quella indulgenza e quel rispetto che si esige per sé, non ha alcuna scusante.

Fuori dei rapporti con gli altri, l’individuo umano è veramente nulla.

Dal punto di vista del sentimento, l’uomo del nostro tempo non si distingue da quello di altri tempi, lontani o vicini. È un essere che sente la propria insufficienza, che ha bisogno di aiuto, di appoggio, di comprensione e di affetti teneri, perché da solo non può cavarsela nelle situazioni difficili che la vita gli offre.

L’uomo moderno nutre una diffidenza oscura e radicata negli impegni emotivi di qualsiasi genere (amori, amicizie, affetti) in quanto significano responsabilità, non disponibilità dei propri atteggiamenti, limitazioni gravi e talora decisive delle proprie attività e rischi di delusioni o di disinganni.

La minaccia che la morte fa incombere sull’uomo è  un elemento importante dell’esistenza umana nel mondo. La possibilità della morte è il filo nero che s’intreccia con i fili bianchi delle possibilità che la vita offre all’uomo; un filo nero che può, ad ogni istante, annientare gli altri.

Questo la morte può veramente insegnare all’uomo: a impegnarsi operosamente nella vita, a viverla con serenità e misura sicché sappia di non averla sprecata, quando l’ospite inattesa sopraggiunge.

Come la religione può prospettare agli uomini una via di salvezza e aiutarli a intraprenderla, ma non può garantire la salvezza dell’individuo perché nessuno può essere salvato contro la sua volontà, così la filosofia può prospettare agli uomini le vie del loro comportamento mondano e guidare o illuminare le loro scelte, ma non può compiere, per l’individuo, la scelta decisiva che spetta unicamente a lui stesso.

Il fondamento umano della filosofia continua ad essere nelle tre domande in cui Kant lo riassumeva in un capitolo della Critica della ragion pura·. Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare?

La condizione umana, che la filosofia può descrivere con i suoi mezzi, in quanto è soggetta al male, alla morte e agli infiniti pericoli che minacciano anche i destini più fortunati, è un forte incentivo della fede religiosa. Ma un incentivo non è propriamente una giustificazione, un fondamento razionale. 

È assai difficile che la filosofia riesca a dare all’uomo la garanzia assoluta che la sua invocazione al trascendente non si rivolga a un cielo vuoto, che non si perda senza eco negli spazi. Ma se d’altronde riuscisse a darla, dove sarebbe il merito e la responsabilità della fede?

La più antica e venerabile definizione della filosofia è quella che la considera come «ricerca della saggezza»: dove per saggezza si intende (come spiegava Platone) la conoscenza dell’uso che l’uomo deve fare del proprio sapere.

Di fronte al nulla, come di fronte al tutto, l’uomo non può far nulla: solo la rinuncia gli rimane. Ma al di là di questa rinuncia, c’è un compito più dignitoso: quello della lotta contro gli aspetti nullificanti della vita, per una vita migliore.

Gli spiriti creativi nell’arte e nella scienza, come nella politica e negli affari, traggono dall’esercizio della loro attività una soddisfazione che li rende in qualche modo tetragoni ai colpi della fortuna. Più esposti a questi colpi sono gli spiriti disorientati, che non sanno che fare della propria vita, che non hanno un interesse dominante o non sanno accentrare intorno ad esso il resto della loro vita.

La misura della felicità è l’individuo, e ciò che rende felice un individuo può rendere infelice un altro.

Un lavoro, anche modesto, cui l’individuo si senta tagliato, una possibilità effettiva di successo nell’attività che si è scelta, la prospettiva di un nuovo benessere, una vita affettiva senza seri conflitti, un amore riuscito, un sistema di abitudini regolari che assicuri un minimo di soddisfazioni, sono elementi o condizioni di una felicità che non è gioia né estasi, ma equilibrio della personalità umana e fecondità delle sue manifestazioni.

Se l’umanità vuol sopravvivere, non può dimenticare il rispetto che deve a se stessa e a ognuno dei suoi membri. Questo è l’unico  punto fermo.

Una società è tanto più libera e più ricca, quanto minori imposizioni o costrizioni esercita sulla formazione dei caratteri singoli: perché può allora utilizzare nei modi più diversi, e a seconda delle esigenze impreviste, la varietà dei talenti, dei temperamenti e dei caratteri di cui dispone.

La saggezza della vita
© Rusconi, 1985

Chi ha avuto la fortuna di incontrare l'amore, faccia di tutto per mantenerlo vivo, perché l'amore non invecchia. E chi non l'ha incontrato, apra il cuore alla speranza, poiché la vita è sempre una speranza d'amore.

Solo chi si isola da se stesso e dal prossimo è veramente solo.

Fonte sconosciuta
La filosofia può vivere solo a costo di illudersi. Essa deve illudersi di poter conquistare l'essere, ma può essere se stessa solo a patto di non conquistarlo mai.

La ragione in sé stessa possiede la possibilità di sbagliare, e la sua fallacia può trovare posto nella nostra logica.

Note
Leggi anche le citazioni dei filosofi italiani: Umberto GalimbertiLuigi PareysonEmanuele Severino

Frasi e citazioni sulla Secolarizzazione

Raccolta di aforismi, frasi e citazioni sulla secolarizzazione e sul secolarismo, termini impiegati frequentemente come sinonimo di laicizzazione, per indicare la perdita del carattere religioso o confessionale di una società.
"Con secolarismo (dal latino saeculum, che indicava tutto ciò che non appartiene alla religione) si intende una serie di trasformazioni sociali, che portano un Paese ad adottare una cultura più laica, tale che lo Stato abbia scarsa o nessuna ingerenza nella sfera religiosa e viceversa, garantendo la libertà da leggi e insegnamenti religiosi". [...] "La secolarizzazione è "il processo di progressiva autonomia delle istituzioni politico-sociali e della vita culturale dal controllo e/o dall'influenza della religione e della Chiesa. In questa accezione, che fa della secolarizzazione uno dei tratti salienti della modernità, il termine ha perso la sua originaria neutralità e si è caricato di connotazioni di valori di segno opposto, designando per alcuni un positivo processo di emancipazione, per altri un processo degenerativo di desacralizzazione che apre la strada al nichilismo". [Wikipedia].
Come nota Roberto Giovanni Timossi: 
"Insieme con la modernizzazione tecnologica, tanto il sapere scientifico quanto la propensione antimetafisica e antireligiosa di molta filosofia contemporanea hanno avuto rilevanti riflessi sui costumi e sugli stili di vita occidentali, dove l’espansione del consumismo accompagnato da una certa dose di egoismo edonistico ha contribuito all’affermarsi di quella che di recente il filosofo cattolico canadese Charles Taylor ha chiamato «età secolare»; vale a dire una rappresentazione dell’esistenza sostanzialmente immanentistica, che fa dell’istanza religiosa una questione secondaria o addirittura indifferente rispetto alla dimensione dei valori e dei comportamenti individuali, con gli spazi pubblici «svuotati di Dio o di qualsiasi riferimento alla realtà ultima»". [Nel segno del nulla, 2015].
Su Aforismario trovi altre raccolte di citazioni correlate a questa sull'ateismo, l'incredulità, il laicismo, il nichilismo e l'anticlericalismo. [I link sono in fondo alla pagina].
Foto di Charles Taylor
Nel mondo secolarizzato è accaduto che la gente dimenticasse le risposte alle principali
domande sulla vita. Ma il peggio è che sono state dimenticate anche le domande.
(Charles Taylor)

Il grande innamoramento è una delle ultime vere esperienze religiose che l’uomo moderno riesca ancora a vivere. Una delle poche zone dello spirito in cui non si è ancora diffusa la secolarizzazione profana. Forse è per questo che viene così spesso deriso, descritto come una forma di regressione infantile.
Francesco Alberoni, Valori, 1993

A fronte della complessità sociale e culturale oggi in atto che determina il diffondersi del secolarismo, l'Evangelizzazione va intesa come prima evangelizzazione e in termini di catechesi, cioè di una fede pensata, sia per quanto riguarda le ragioni della fede sia per quanto riguarda i contenuti della fede perché esiste una grande ignoranza religiosa assolutamente da colmare per resistere alle sfide della secolarizzazione.
Angelo Bagnasco [1]

Il fastidio che si avverte nel sentir dire che l'opinione personale non è la norma oggettiva della verità e dell'agire, è segno di una mentalità secolarizzata.
Angelo Bagnasco [1]

La secolarizzazione è il processo attraverso il quale settori della società e della cultura diventano estranei al dominio delle istituzioni e dei simboli religiosi.
Peter Ludwig Berger [1]

A livello fenomenologico, per secolarizzazione s'intende un processo che caratterizza soprattutto le società occidentali ed è marcato dall'abbandono degli schemi religiosi e di un comportamento di tipo sacrale. Storicamente tale processo è collegato a quello di emancipazione della sfera politica da quella religiosa e ha inteso se stesso come ristabilimento della ragione e di ciò che è ragionevole.
Tarciso Bertone, Cristianesimo e secolarizzazione, congresso, Università Europea di Roma, 2007

La visione secolaristica, immanente e chiusa ai valori trascendenti, non ha potuto più nascondere la propria inumanità, proprio perché l'apertura a Dio costituisce una dimensione fondamentale dell'uomo. Con il tempo, infatti, la verità è stata surrogata dall'ideologia, oppure dallo scetticismo e dal nichilismo.
Tarciso Bertone, ibidem

Si dice spesso che la nostra società tende sempre più a secolarizzarsi, ma anche in una società fortemente secolarizzata il senso del sacro non è andato perduto totalmente, e talvolta quasi per niente, anche se non tutti ci fanno caso, pure negli ambienti più avvertiti.
Edoardo Boncinelli, Contro il sacro, 2016

La dottrina del peccato è servita a farci essere migliori? E serve ancora oggi in una società certamente non razionale, ma secolarizzata e aperta a molte più informazioni e conoscenze che nel passato?
Edoardo Boncinelli, ibidem

Con gli anni, soprattutto in Occidente, si è andati secolarizzando la maggior parte delle norme morali, così che oggi ci troviamo spesso in presenza di un codice doppio, o almeno doppio: quello della morale sociale corrente, oggetto dell’etica e della politica, e quello della morale conforme all’insegnamento religioso.
Edoardo Boncinelli, ibidem

Le chiese sono vuote quando i pastori invece di essere tali sono burocrati, funzionari, impiegati. Il problema della Chiesa odierna è che difetta troppo spesso di pastori, di persone che amano Cristo e condividono la vita di coloro che sono loro affidati. La secolarizzazione rappresenta, da questo punto di vista, l’alibi che nasconde il vuoto di fede e di tenerezza, la distanza tra le parole, spesso altisonanti e melliflue delle omelie, e la prossimità reale capace di saluti e di gesti. Là dove il pastore è un uomo di Dio che si fa tutto a tutti lì le chiese tornano, miracolosamente piene. L’uomo odierno, il giovane di oggi, non ha perso il senso dell’amore divino.
Massimo Borghesi, Le chiese vuote e l’alibi della secolarizzazione, su L'Osservatore Romano, 2021

Mentre la società si secolarizza, la Chiesa perde il suo potere e la nuova religione imperante diventa il Capitalismo. Forse faranno una società per azioni.
Carl William Brown, Aforismi contro il potere e l'autorità della stupidità, 2015

Ai tempi in cui il Diavolo prosperava, il panico, il terrore, i disordini erano mali che godevano di una protezione soprannaturale: si sapeva chi li provocava, chi presiedeva alla loro manifestazione; ora, abbandonati a se stessi, sì trasformano in «drammi interiori» o degenerano in «psicosi», in patologia secolarizzata.
Emil Cioran, Sillogismi dell'amarezza, 1952

La religione è un’arte di consolare. Quando il prete dice, a voi afflitti, che Dio si interessa al vostro sconforto, offre una consolazione che, in fatto di efficacia, non potrà mai trovare equivalenti in dottrine secolari. Ci si chiede come si comporteranno gli uomini nelle prove della vita, una volta liquidato il cristianesimo. Forse in avvenire il bisogno di consolazione si farà sentire di meno, e con il diminuire della speranza diminuirà anche il contrario.
Emil Cioran, Quaderni, 1957/72 (postumo 1997)

Da quando la religione si secolarizza, come ultimo testimone di Dio rimane Satana.
Nicolás Gómez Dávila, In margine a un testo implicito, 1977/92

Le architravi secolari poggiano su spalle solitarie.
Nicolás Gómez Dávila, ibidem

Il secolarismo che vuole conquistare il mondo pone la comunità di Cristo dinanzi a un nuovo immane compito. Tutte le forze dell’Anticristo si compattano in un fronte unitario. I simboli della Chiesa sono nella tempesta. Si prepara un’ultima battaglia spirituale. È venuta una grande ora, forse l’ultima. Possa questa grande ora trovare una stirpe che riconosca il segno dei tempi e sia pronta ad opporsi al nemico, e a soffrire con Cristo, a morire e morendo a vincere.
Karl Heim, Der Kampf gegen den Säkularismus, in Die Furche, 1930

Insieme alla comparsa della mentalità scientifica moderna, il secolarismo, nel suo significato più convenzionale, è divenuto la visione del mondo dominante nella cultura occidentale. Ciò coincide con la diagnosi fatta da Max Weber sul “disincanto” (Entzauberung) della società contemporanea, prodotto da una combinazione di fattori: la rivoluzione industriale, l’avvento del capitalismo, il dominio meccanico e tecnologico della natura, l’illuminismo razionalista e le varie rivoluzioni borghesi avvenute in Europa e nel Nuovo Mondo. In questa prospettiva positivista, la religione viene considerata il ricordo di un passato primitivo, una forma di superstizione istituzionalizzata destinata sicuramente a scomparire nell’età della ragione secolare.
Richard Kearney, Ana-teismo, 2009

Nel tempo di una piena secolarizzazione e naturalizzazione dell'etica, la riflessione sulla morale non potrà che fare un passo indietro e abbandonare la pretesa di indicare a tutti gli individui ciò che è assolutamente bene o giusto fare. Essa, non potendo più occupare in modo esclusivo il piano della fondazione dei valori, dovrà limitarsi ad affiancare le persone nel processo di realizzazione della consapevolezza di essere individui moralmente responsabili.
Eugenio Lecaldano, Un'etica senza Dio, 2006

Niente religiosi negli affari! Se sono buoni religiosi, non s’intendono di cose secolari. Se invece s’intendono di cose secolari, non sono buoni religiosi.
Charles-Louis de Montesquieu, I miei pensieri, 1716-55  (postumo 1899-01)

Il mondo contemporaneo è da tempo ampiamente secolarizzato e i sociologi rilevano un calo consistente delle vocazioni. I preti sono divenuti più rari degli infermieri.
Salvatore Natoli, Stare al mondo, 2002

Le persone religiose infelici, persino arrabbiate, forniscono argomenti più persuasivi per l'ateismo e il secolarismo di tutti gli argomenti degli atei. 
Dennis Prager [1]

Tanti cristiani - lasciamo perdere la società secolarizzata - non prendono sul serio il cristianesimo con le sue verità e le scelte che esige. Un'infarinatura di preghiere e di qualche opera buona non è una risposta al Discorso della montagna e ai suoi appelli, così come una vaga conoscenza dei Vangeli non copre la richiesta che Cristo avanza di adesione alla sua rivelazione di verità, di amore, di libertà. Le sue parole, se ridotte a dialogo di società, si spengono, perché esse in realtà hanno il fuoco dentro e vorrebbero invece accendersi nelle menti e nelle anime. 
Gianfranco Ravasi, Le parole del mattino, 2011

Il timore di Dio non esiste più. Ma un nuovo timore subentra al suo posto, l’angoscia del mondo. Essa ha già lasciato profondi segni sul volto del nostro tempo, i cui tratti mostrano già una smorfia di disgusto. Il culto della civiltà si capovolge in disprezzo. Il porto oscuro di ogni secolarizzazione è il pessimismo.
Helmuth Schreiner, Die Säkularisierung als Grundproblem der deutschen Kultur, su Kirchlich-sozialer Bund, 1930

La secolarizzazione nasce all’interno dell’Occidente cristiano soprattutto con la Riforma, che afferma una concezione antropocentrica della religione, una visione avversa al magico e attenta ai diritti individuali. È questo il terreno fertile per l’emergere del mondo secolarizzato
Charles Taylor, L'età secolare, 2009

L'epoca della secolarizzazione è una fase storica in cui diventa concepibile l'eclissi di tutti i fini che trascendono la prosperità umana.
Charles Taylor, ibidem

Nel mondo secolarizzato è accaduto che la gente dimenticasse le risposte alle principali domande sulla vita. Ma il peggio è che sono state dimenticate anche le domande. Gli esseri umani – che lo ammettano o no – vivono in uno spazio definito da domande profonde.
Charles Taylor, su Corriere della sera, 2009

L’attuale diffuso atteggiamento ateo è sicuramente uno dei prodotti della secolarizzazione e degli effetti di uno stile di vita disincantato rispetto al trascendente, nonché predisposto dai progressi della tecnologia e dalle banalizzazioni del consumismo a cogliere maggiormente o preferibilmente le esigenze pratiche piuttosto che quelle teoretiche o di valenza superiore. 
Roberto Giovanni Timossi, Nel segno del nulla, 2015

L’ateismo di gran lunga prevalente nell’attuale civiltà secolarizzata resta quello «pratico» e comunque in generale quello dell’indifferenza o di un’incredulità di fondo nei confronti del problema dell’esistenza di Dio e della religione.
Roberto Giovanni Timossi, ibidem

L’individuo secolarizzato è in definitiva un «uomo pratico» che non dà ascolto alle ideologie di nessun genere, tantomeno a quelle politiche, ma neppure alle religioni e alle spiegazioni metafisiche. È un «uomo autarchico», che pensa di poter decidere da solo e in autonomia ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. È un «uomo disincantato», che non crede a nessuna visione del mondo, ma ripone nel contempo nella scienza e nella tecnica una fiducia pressoché sconfinata. Questo «uomo pratico» spesso assume pregiudizialmente una posizione contraria al problema di Dio, perché lo ritiene fondato su un’ipotesi inutile, quindi una questione irrilevante rispetto al proprio lifestyle.
Roberto Giovanni Timossi, Nel segno del nulla, 2015

Note
  1. Fonte della citazione sconosciuta; se la conosci, segnalala ad Aforismario.
  2. Vedi anche aforismi, frasi e citazioni su: Ateismo - Incredulità - Laicismo - Nichilismo - Anticlericalismo

Frasi e citazioni di David Le Breton

Selezione di aforismi, frasi e citazioni di David Le Breton (1953), antropologo e sociologo francese, docente all'Università di Strasburgo. Si è occupato, in particolare, della società contemporanea, analizzandone gli aspetti e i fenomeni sia da un punto di vista socio-antropologico che filosofico. La maggior parte delle seguenti citazioni di David Le Breton sono tratte dai libri: Sul silenzio (Du silence, 1997), Il mondo a piedi (Éloge de la marche, 2000) e Fuggire da sé (Disparaître de soi, 2015).
Foto di David Le Breton
Rinunciare a sé è talvolta l’unico modo per non morire o per sfuggire a qualcosa
che sia anche peggiore della morte. (David Le Breton)

Antropologia del dolore
Anthropologie de la douleur, 1995

Non c’è dolore senza sofferenza, cioè senza un significato a livello affettivo che traduce lo spostamento di un fenomeno fisiologico verso il centro della coscienza morale dell’individuo.

Il dolore inerisce alla vita come contrappunto che dà pienezza al fervore d'esistere. 

Ogni dolore implica un danno morale, una messa in causa del rapporto che l’individuo ha con il mondo.

Senza il dolore, l’uomo è legato mani e piedi, è alla mercé di un ambiente la cui ospitalità gli è spesso accordata con parsimonia. Esso protegge l’uomo dalle innumerevoli minacce che pesano sulla sua condizione, difende l’organismo suscitando un immediato ritrarsi e lasciando poi tracce nella memoria, cosa che conduce a un agire più avveduto.

Se il dolore è uno stato spiacevole, è anche una difesa apprezzabile contro le ineluttabili asperità del mondo.

Come la morte, il dolore è il destino comune, nessuno può pretendere di sfuggirgli. Non dimentica nessuno e richiama all’ordine in varie forme, nel corso dell’esistenza, a dispetto della volontà dell’uomo.

Sul silenzio
Du silence, 1997 - Selezione Aforismario

In un contesto in cui il rumore non molla mai la presa sull’umanità contemporanea, in cui le parole si svuotano di significato, si acuiscono la nostalgia del silenzio e l’aspirazione a ritrovarlo.

Il rumore è un esercizio di potere sull’altro, una manifestazione talora deliberata di disturbo quando, per esempio, da una finestra aperta si lascia rimbombare la musica in tutto il vicinato. In questo senso, il rumore è diventato una forma di espressione del risentimento, di rivincita sulla sorte. Il benessere acustico è un lusso.

La musica di sottofondo è un’arma efficace contro una certa fobia del silenzio

Le nostre società aggiungono nuove imposizioni sonore, quali le musiche di sottofondo nei negozi, nei bar, nei ristoranti, nelle hall degli alberghi, quasi che il silenzio dovesse essere sommerso da una produzione permanente di rumori che nessuno ascolta, che talvolta persino indispone, il cui vantaggio consiste però nella possibilità di distillare un messaggio rassicurante, antidoto contro la paura diffusa di non avere niente da dire, infusione acustica di sicurezza la cui improvvisa sospensione suscita un duplice fastidio.

Il silenzio risuona come una nostalgia, fa appello al desiderio di un ascolto senza fretta del fruscio del mondo.

L’imperativo di comunicare, nel senso moderno del termine, è un atto di accusa nei confronti del silenzio, l’eliminazione di qualsiasi forma di interiorità.

L’ideologia della comunicazione assimila il silenzio al vuoto, alla rovina, non riconoscendo che, talvolta, proprio la parola è la lacuna del silenzio. 

Il silenzio libera dal peso di dover essere sempre disponibili e sul chi-va-là, fornendo un’intensa sensazione di essere al mondo.

Mentre alcuni soggetti amano ritirarsi nel silenzio come in un rifugio, percependolo come un luogo propizio per ritrovare se stessi, altri ne risultano terrorizzati, al punto da mettere in atto ogni forma di strategia per difendersi dallo stesso.

Unito alla bellezza del paesaggio, il silenzio è un cammino che conduce a sé, alla riconciliazione con il mondo, configurandosi come un momento di sospensione del tempo, come l’apertura di un varco che offre all’uomo la possibilità di ritrovare il proprio posto, di conquistare la pace.

Il silenzio apre alla profondità del mondo, spinge verso la dimensione metafisica, sottraendo le cose al mormorio che normalmente le avvolge e liberando, in questo modo, la potenza che racchiudono.

Il diritto al benessere acustico, la salvaguardia di una parte di silenzio sono diventati un ambito sensibile della socializzazione, un valore unanime in risposta all’aumento del rumore nell’ambiente.

Il mondo a piedi
Éloge de la marche, 2000 - Selezione Aforismario

Si cammina per nessun motivo, per il piacere di gustare il tempo che passa, di concedersi una deviazione per meglio ritrovarsi alla fine del cammino, per scoprire luoghi e volti sconosciuti, per aumentare la conoscenza corporea di un mondo inesauribile di sensi e sensorialità; o anche, semplicemente, per rispondere all'invito della strada.

Camminare significa aprirsi al mondo.

Spesso camminare è un espediente per riprendere contatto con se stessi.

L’atto del camminare riporta l’uomo alla coscienza felice della propria esistenza, immerge in una forma attiva di meditazione che sollecita la piena partecipazione di tutti i sensi.

Perdere tempo a camminare appare come un atto anacronistico in un mondo dominato dalla fretta. Poiché introduce una dimensione dilettevole del tempo, come dei luoghi, il camminare rappresenta uno scarto, uno sberleffo alla modernità.

Nonostante gli ingorghi del traffico nelle città e le innumerevoli tragedie di cui è causa, l’automobile è oggi regina del quotidiano e ha reso il corpo un elemento accessorio per milioni di nostri contemporanei.

Camminare, anche per una modesta passeggiata, concede una licenza momentanea dalle cure che ingombrano l’esistenza inquieta e frettolosa delle società contemporanee.

Viaggiare a piedi è un modo di conoscere che rammenta il significato e il prezzo delle cose, una deviazione fruttuosa per ritrovare la capacità di godere degli eventi.

La passeggiata è un aspetto minore ma fondamentale della marcia. Costituisce un rito personale, praticato da un’infinità di persone, sia occasionalmente sia con regolarità. In solitudine o in compagnia, è un placido invito al rilassamento e alla parola, al bighellonare senza scopo, per riprendere fiato, addomesticare il tempo, ricordarsi di un mondo percepito a misura d’uomo.

La marcia solitaria ha i suoi adepti, da Rousseau a Stevenson a Thoreau; è una ricerca di contemplazione, di abbandono, un bighellonare a proprio agio che la presenza di un compagno guasterebbe, obbligando alla parola, al dovere di comunicare.

Il silenzio è lo sfondo di cui si nutre il camminatore solitario.

La marcia è un’apertura al mondo, che invita a essere umili e a cogliere avidamente il momento. La sua etica della curiosità e del perder tempo ne fa uno strumento ideale per la formazione personale, una scuola di vita che si avvale del corpo e di tutti i sensi.

La marcia è un momento ideale per esercitare il pensiero.

Per la frattura che rappresenta rispetto agli ordinari mezzi di trasporto, per lo scostamento dalla via che impone, la marcia non solo è un processo di conoscenza di sé e dell’altro, uno spaesamento delle conoscenze, ma ha anche l’effetto di sfoltire i pensieri, mobilita un’effervescenza diffusa che si accentua con la stanchezza del procedere.

La pelle e la traccia
La Peau et la Trace, 2003

Se la pelle è soltanto una superficie, essa al contempo raffigura le profondità del sé. La pelle incarna dunque l'interiorità; toccandola, tocchiamo il soggetto - tanto in senso proprio quanto in senso figurato.

La pelle è una barriera, una guaina narcisistica che protegge dal possibile caos del mondo.

Le pelle racchiude il corpo, i limiti di sé, crea la frontiera fra dentro e fuori: una frontiera vivente.

Il sapore del mondo
La saveur du Monde, 2006

Il gustare isola l'individuo in un universo di sapori e di piaceri che sembra concernere solo lui. De gustibus non est disputandum.

Certo, al cuore del dispositivo culinario rimane sempre il sapore e il cuoco è anzitutto un maestro del gusto, ma allo stesso tempo deve lusingare gli occhi e offrire all'olfatto odori appetitosi.

La cucina è una musica del gusto, le cui note sono costituite dai sapori e dalla loro mescolanza, in rapporto con alimenti, salse, condimenti, dosaggi, cotture, ecc.

Si mangia con il naso oltre che con la bocca, e l'apprezzamento dei sapori è legato non solo all'olfatto, ma anche al modo in cui i piatti vengono presentati e all'elemento tattile che entra in gioco nel momento in cui si mangia.

Fuggire da sé
Disparaître de soi, 2015 - Selezione Aforismario

L’esistenza talvolta ci pesa. Sia pure per un breve intervallo vorremmo sottrarci agli obblighi che ci impone. In certo modo, vorremmo prendere una vacanza da noi stessi, tirare il fiato, riposarci.

Talvolta, anche quando non si è oppressi da alcuna difficoltà, si avverte la tentazione di assentarsi da sé, magari per una breve pausa, per sottrarsi alle consuetudini e ai pensieri assillanti.

Trovare sostegno alla propria autonomia e bastare a sé non è da tutti. 

L’individuo ipermoderno è disimpegnato. Richiede la presenza degli altri ma vuole anche starne lontano.

Il legame sociale è divenuto un dato ambientale più che un’esigenza morale. Per certuni, addirittura, altro non è che il teatro indifferente della loro azione personale.

Nel quotidiano, la maggior parte dei rapporti non è vincolante; la televisione, internet, le chat, i forum, il cellulare sono strumenti che consentono di esserci senza esserci, di prendere le distanze da un rapporto oscurando semplicemente lo schermo.

L’individuo contemporaneo è connesso, non già in relazione con gli altri: con questi comunica sempre più spesso, ma li incontra sempre più raramente; predilige i rapporti superficiali, che allaccia e abbandona a piacimento.

Rinunciare a sé è talvolta l’unico modo per non morire o per sfuggire a qualcosa che sia anche peggiore della morte.

Una facile via per sottrarsi ai vincoli dell’identità è impegnarsi nelle chat o nei forum, nei videogiochi online, nei mondi paralleli di internet moltiplicando alias o avatar.

Il virtuale esercita un effetto narcotizzante rispetto al legame sociale fondato sui contatti, libera l’individuo del corpo e di tutte le responsabilità connesse al suo particolare statuto di persona, crea un mondo interamente suo e provvisto di regole proprie. Di lì deriva la trance, la dissoluzione di sé in un universo sovrainvestito che cancella temporaneamente il contesto sociale.

Per chi è padrone di un mondo ridotto a un’estensione di sé e configurato da un supporto tecnico, non è sempre gratificante ritornare allo statuto subalterno inflitto dal legame sociale. Di qui la difficoltà di sottrarsi all’estasi del gioco e la fretta di tornarvi.

Numerosi internauti, in particolare adolescenti, si legano al proprio avatar come a un alter ego più vivo di quanto non siano loro, sperimentando tramite esso forme di socialità e di sessualità che nella vita reale li spaventano.

Soprattutto in Giappone, adolescenti o giovani adulti (definiti hikikomori) decidono di isolarsi dal resto del mondo. Respingono ogni contatto con l’esterno e fuoriescono dal circuito, chiudendosi nella loro stanza in casa dei genitori, o non lasciando più l’appartamento in cui abitano.

La nostra vita è costituita tanto di occasioni mancate, quanto degli eventi che la costellano. Nessuno vive tutte le virtualità che sono in lui, tantomeno riesce a immaginarle. Ogni istante che passa lascia dietro di sé un’infinità di vite possibili, che sono durate il tempo di un respiro.

Note
Leggi anche le citazioni degli autori francesi: Michel OnfrayPascal Quignard - George Steiner

Frasi e citazioni di Roberto Cotroneo

Selezione di frasi e citazioni di Roberto Cotroneo (Alessandria 1961), giornalista, scrittore, critico letterario e fotografo italiano. 
"La rete è un campo sterminato dove si possono cogliere fiori di citazioni, versi poetici, frammenti di saggezza. Poi si tratta di arricchirli con la propria esperienza personale, di condividerli, di confrontarsi, e di lasciarsi suggestionare da quanto scrivono gli altri".
Foto di Roberto Cotroneo
Scrivere è il miglior modo per conoscere se stessi.
E non c’è cosa più importante di questa. (Roberto Cotroneo)

Presto con fuoco
© Mondadori, 1995

Il mondo della musica non è misurabile con nulla, è incommensurabile, un’altra dimensione.

Eppure deve esistere una calligrafia delle passioni. Un segno più morbido, una coda della croma che scende di troppo, uno svolazzo di pausa, quella che vale un quarto, una pressione più forte del pennino, quasi un graffio, un oltraggio a quella carta spessa, lanosa, che un tempo si usava per scrivere musica.

Odio le biblioteche immense, fatte di migliaia di dorsi che non si leggeranno mai, buone per riempire scaffali, per non vedere pareti bianche.

L'età perfetta
© Rizzoli, 1999 

C'è una legge di natura che sappia spiegare perché il mio desiderio per Nunzia sia rimasto intatto, a dispetto del tempo? Una legge che mi dica perché non c'è più una sola notte che io non desideri quel corpo, fino a sentirmelo addosso, come se Nunzia fosse ancora con me, in quelle stanze che dànno sul giardino?

Io ero diventato un uomo che non aveva più lettere da scrivere, libri da leggere, amici da incontrare. Guardavo le case e cercavo di spiare quello che c'era dentro, il buio oltre i vetri, le luci deboli; convinto che il tempo fosse solo una modalità dello spazio, e il passato qualcosa che sta un poco in più in là, in fondo a quel corridoio.

Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome
© Mondadori, 2002

C'è più gente che crolla di fronte al mondo e fugge, di gente che riesce a viverlo.

Come si potevano perdere le parole che correvano per il mondo, e con le parole perdere intere vite, intere storie che nessuno avrebbe potuto ricostruire uguali?

Le vite si arrangiano una con l'altra, si confondono, si immergono in storie che non sono le loro per poi uscirne di nuovo cambiate.

Le persone attribuiscono significati dove non ci sono, e sfuggono da quelli che esistono veramente, come non sapessero decifrarli.

Non c'è nulla più della musica a svelarti fino in fondo: è sensibilità, è intuizione, è un mondo sottotraccia, che non vuole e non chiede ragionamenti, che entra nella pelle, attraversa i corpi, si sparge per l'aria che respiriamo.

Questo amore
© Mondadori, 2006

Con il tempo ho capito quanto il non esserci possa diventare una forma della presenza spesso più intensa della presenza stessa.

Forse l'eterno sta nella capacità di tenere vivo un attimo di orizzonte, aspettando che si ripresenti.

Il desiderio è una domanda la cui risposta nessuno conosce.

L'amore è capace di far vivere le assenze, di generare presenze.

La speranza non è una scelta. La speranza è un sentimento.

La voce della passione è migliore di quella della ragione, poiché gli impassibili non sanno cambiare la storia.

Mi domando se il paradiso non sia sparso, disseminato un po' in un luogo, un po' in un altro. in un dettaglio, in una discarica, in un colore che affiora da un muro. Forse tocca a noi riconoscere nelle cose del mondo una traccia di paradiso. Come fanno gli archeologi quando puliscono i reperti con i pennelli.

Oggi vivo di insonnia e di nostalgie. Specie nei giorni che precedono la primavera, nei giorni di vento, sono preda di rimpianti a cui non so dare un nome.

Il sogno di scrivere
Perché lo abbiamo tutti. Perché è giusto realizzarlo
© Utet, 2014 - Selezione Aforismario

Sembrerà strano, ma buona parte delle persone che vogliono imparare a scrivere non cerca la gloria letteraria, non vuole firmare i frontespizi dei loro libri. Non ambiscono a premi letterari. Vogliono imparare a raccontare per mettere ordine a quello che hanno vissuto.

Scrivere non è mai solo raccontarsi, ma lasciare che le storie ti vengano a trovare e si mescolino con quello che hai vissuto. Così alla fine non si tratta solo di mettere su carta la propria vita. Ma di riempire quelle vita di altre cose, di aggiungere vita ai giorni che hai vissuto.

Gli editori lo sanno bene: non ci sono calcoli che tengano, e non esiste una formula del best seller. Se così fosse l’editoria non andrebbe così male. Non esiste neppure per quegli autori che trasformano ogni libro in un successo.

Si può scrivere un romanzo solo per tornare in un luogo perduto, per rivedere qualcuno che si è perso, per ridisegnare un passato che ha sbavature che appaiono come ferite, per beffare il futuro con una storia che del futuro non sa che farsene. 

Uno scrittore, chiunque, dal più grande al neofita, diventa una spugna della realtà. E lo fa in modo inconsapevole. Ogni cosa che accade nella vita di tutti i giorni, dal momento in cui si decide di scrivere un romanzo torna utile. 

Quasi sempre si decide di scrivere un romanzo senza saperlo, e capita altrettanto spesso che si decida di scrivere un romanzo senza neppure sapere di essere degli scrittori.

In fondo un romanzo è il frutto di un tempo che non sapevi di avere, di un universo parallelo che sterza all’improvviso nel momento in cui scatta quella cosa che ti porta a cominciare a scrivere. Allora le due vite vanno a intersecarsi, e il punto dove si incontrano è l’inizio dell’avventura della scrittura.

La scrittura non deve compiacere nessuno: né chi scrive e neppure chi legge. 

Tutti i fotografi possono trovare un buon soggetto per scattare. Ma tra un buon fotografo e un dilettante è lo sguardo che conta, e la composizione della foto. 

Scrivere è il miglior modo per conoscere se stessi. E non c’è cosa più importante di questa.

Molti pensano che la scrittura sia un modo per rimettere in ordine la vita, ma invece accade proprio il contrario: la scrittura è il miglior modo per fare disordine nelle proprie vite.

Scrivere è uno dei pochi modi per vivere più di una vita. Come fossero universi paralleli che vai a scoprire da qualche parte.

La scrittura rielabora il dolore. È una verità indiscutibile. Ma non è detto che porti a un buon romanzo. Però non è importante la qualità del libro. Conta il sollievo. Conta la possibilità di fare qualcosa per ricominciare a vivere.

L’editor dovrà diventare una persona di famiglia. È come l’accordatore dei grandi pianisti. Venerazione, rispetto e ascolto. Senza di lui non potrete fare concerti.

A volte da innamorati si scrive meglio. Anche da innamorati infelici.

Più a voi non piaceranno i critici, più piacerete ai critici.

Quando scrivete, se potete, non leggete narrativa. Guardate film, leggete saggi, andate a teatro. Uscite con gli amici, ma non leggete romanzi. Soprattutto quelli dei vostri autori preferiti. L’influenza è importante quando è distante. Quando è troppo vicina rischia l’emulazione.

Refusi. È quasi un postulato. Rileggete il testo dieci volte. L’undicesima fate come i vecchi correttori di bozze: leggete al contrario, dalla fine verso l’inizio, affinché il senso della frase non vi inganni, e potete controllare parola dopo parola. Poi mandate in stampa. Appena vi arriva il libro (o l’ebook) aprite a caso, tutti fieri dell’opera, e la prima cosa che vedete è un refuso.

Il mondo è composto da tre categorie di persone. Quelli che scrivono romanzi e li pubblicano. Quelli che li scrivono ma non li pubblicano, o perché non ci riescono o perché preferiscono tenerli nei loro cassetti, e quelli che non scrivono romanzi ma almeno una volta hanno pensato di farlo. Questo mondo è il mondo intero, o quasi.

Scrivere libri è prima di tutto un tempo in cui non si scrive. Poi c’è la scrittura, ma quella occupa uno spazio limitato.

Scrittura è invenzione, è mettere sulla carta la vita che vorresti, non soltanto la vita che hai. In casi estremi puoi mescolare le due cose. 

Se vi piace scrivere per essere scrittori, siate scrittori, ma senza scrivere. È meno faticoso, e decisamente più divertente. Se non potete fare a meno di scrivere, e per questa esigenza sareste disposti anche a togliere il vostro nome dalla copertina, e il vostro corpo lo vorreste invisibile, e sareste felici di andare a vivere in un bosco del New Hampshire parlando solo con il contadino che munge le vacche, bene forse siete sulla strada giusta. 

La maggior parte dei manoscritti che gli editori rifiutano non sono impubblicabili. Ma sono privi di anima. Ed essere privi di anima significa anzitutto essere incapaci di vedere con chiarezza quello che si sta facendo, essere incapaci di leggere con nitidezza il proprio percorso. Non avere alcuna consapevolezza.

Meglio commettere errori consapevoli che buone cose inconsapevoli.

Cominci a scrivere quando smetti di sognare e cominci a ricordare.

Gli apprezzamenti piacciono sempre, direbbe una bella donna, ma quel che conta è sentirsi belli, non farselo dire dagli altri. 

Non serve sempre il talento per scrivere una buona cosa, alle volte basta anche una verità unita al buon senso.

È per trovare la vostra voce che dovete scrivere. Serve molto a poco leggere, se non imparate a capire chi siete.

Lo sguardo rovesciato
Come la fotografia sta cambiando le nostre vite © Utet, 2015

La forza della foto è nell’essere immediata, nell’essere infinita, nel generare un istante che rivela, che spiega più di qualsiasi altra cosa.

Generalmente o si è veloci o si sta fermi. Nella fotografia è la velocità a fermare le cose.

L’invenzione della fotografia è il preludio della modernità. Il mondo moderno nasce con l’invenzione della macchina a vapore, ma il pensiero moderno, il nuovo modo di stare al mondo nasce con l’invenzione della fotografia. 

È nell’istante che si consumano le verità e si capiscono le cose. Perché, è del tutto ovvio, l’istante è sempre eterno, anche se dura pochissimo.

Niente di personale
© La Nave di Teseo, 2018

Il genio è colui che assomiglia sempre di più a quello che è. E chi sa essere quello che è sta andando nella direzione giusta. 

Tutto cambia troppo in fretta per non destare sospetti. È cambiato il mondo ed è cambiato più in vent’anni che in quattro secoli. È cambiato il clima, il paesaggio. Sono cambiate le abitudini ed è cambiata la bellezza e l’immaginario della bellezza, il desiderio e l’immaginario del desiderio, per le donne e per gli uomini, per i potenti e per quelli che non contano niente. La vita si allunga e crescono i desideri.

Blowin' in the web
Articoli su Sette

Abbiamo trasformato lentamente i social network, senza che molti media se ne accorgessero troppo, da luoghi dell'esibizionismo, luoghi del mostrarsi per quello che si fa, in luoghi dell'anima, in luoghi dove finalmente l'identità prende un suo ruolo sempre più importante, e dove il privato e il pubblico sono divisi sempre meno, sono una linea sottile, fragile, impercettibile.

Gli amori dei social network sono romanzeschi, immaginifici, letterari e intensi. Hanno a che fare con la scrittura, con il tempo dell'attesa e con la distanza. Soffrono di vuoti improvvisi e di verità assolute, corrono con un tempo che non è il tempo delle cose normali, ma un tempo diverso, più veloce, più vero.

L'amore al tempo del web è qualcosa che sfugge anche agli psicologi, perché non è virtuale ma è un codice dell'anima, un attraversamento di sensibilità attraverso una scrittura che deve per forza svelare e mettere in gioco le persone, deve diventare lo specchio di quello che si è stati e di quello che si sta diventando.

Il lato emozionale dei social network ha fuso inconsci, per dirla con Jung, trasformandoli in collettivi, generando altri mondi e altre scritture. Ha cercato risposte in domande che si fanno nel vento del web, e a sua volta ha generato domande che nessuno prima aveva pensato esistessero. Siamo di fronte a un lenta rivoluzione sociale e culturale, che forse sarà lunga, e troverà molte resistenze. Ma che potrebbe cambiare tutto.

Il potere culturale non c'è più, ma il rischio è che tutto questo possa condurre al populismo. 

Il web 2.0 diventa un luogo di domande e di risposte, ma soprattutto di ascolto, a cui nessuno saprà più rinunciare senza rinunciare a una parte importante di se stesso.

L'esperienza del web rischia di essere il contrario dell'esperienza nella vita pratica. Sul web più che cercare stimoli inattesi, cerchi esperienze da ripetere, come fosse un continuo reiterare un desiderio che già conosci. L'inatteso è filtrato, a volte censurato. Se qualcuno dice cose che non capisco e non condivido potrei cancellarlo o toglierlo dai miei follower. E allora l'esperienza non è mai l'avvento dello sconosciuto nel conosciuto, non è mai la mescolanza di saperi, ma il ripetersi di cose che rafforzano identità fragili confermandole. 

La capacità di scambiarsi storie ed emozioni private in situazioni pubbliche è una nuova forma di civiltà.

La maggior parte degli intellettuali ritiene che il pensiero del futuro sia ancora nelle mani dell'editoria, delle accademie, dei giornali, dell'arte e dello spettacolo. Chi si occupa di tecnologia invece intuisce che la partita è altrove, che la tecnologia sta cambiando la società ma non sa ancora comprendere che non è in gioco il futuro, ma la cultura del nostro presente.

La nostalgia è una forma per preservare l'identità psichica, tenerla unita, come una fascia che impedisce al proprio Io di disgregarsi.

Nessuno sa come il concetto di democrazia potrebbe mutare attraverso un'ideologia globale dei social network.

Oggi il nostro vissuto sta per essere spazzato via da nuovi linguaggi, da un diverso modo di percepire le cose, dalla globalizzazione, dal mondo che è diventato più piccolo, e da una nuova estetica. Da un futuro che sembra possa permetterci tutto e da mezzi di espressione che fino a qualche anno fa neppure si immaginavano. 

Per quanto il web non abbia voce, genera un rumore assordante, ed è incapace di silenzio. 

Possiamo dire che siamo alla terza fase del grande fratello di George Orwell. La prima era quella classica: uno che controlla tutti. La seconda è quella televisiva: tutti che controllano pochi dentro una casa. La terza è quella di oggi: tutti che controllano tutti. 

Raccontare la propria identità è un outing emotivo a cui tutti stanno cominciando a cedere, e non perché manca il pudore di fare attenzione a quel che si scrive e si dice. Ma perché è cambiata una nuova forma di senso del pudore: quella del pudore interiore. E forse questa è la nuova rivoluzione, la liberazione interiore di oggi è come la liberazione sessuale degli anni Sessanta. 

Se prima la fotografia era la vita quando assume un forte significato emotivo e simbolico, ora la foto diventa qualcosa che prende significato in quanto condivisione, e non come scatto in sé.

Sul web nulla si crea e nulla si distrugge.

Niente è nascosto e tutto è visibile. Il sapere si è fatto orizzontale, non riemerge dall'oblio in una forma nuova. Tutto si fa immutabile e facile, accessibile e visibile. Il verbo cercare e il verbo trovare sono diventati perfetti sinonimi.

Viviamo un paradosso: tutto resta e tutto è rintracciabile con facilità straordinaria. Dalla propria poltrona, dalla propria scrivania, con qualche parola chiave si ritrovano cose che un tempo richiedevano ricerca, casualità, viaggi, fortuna e ostinazione. Solo che il web ha un problema: per cercare le cose in quell'oceano di dati, di informazioni, di immagini, devi sapere già cosa cercare.

Note
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